sabato 17 agosto 2013

Tre sono le frasi che mi sento ripetere spesso.

1. "Tu non giudichi mai."
Io non giudico mai; è fondamentalmente vero. Una buona tendenza, non lo nego, eppure scomoda, difficile da inquadrare. La realtà è che proprio fatico ad esprimere un giudizio sull'altro, anche (e soprattutto) quando mi viene richiesto dal diretto interessato. Infatti, una delle domande che più mi imbarazza risulta essere: "Cosa ne pensi di me?". Sono sempre restia a rispondere poiché una volta fuori dalla bocca quanto detto non è più recuperabile. Anche il saper dosare le parole non sempre è sufficiente a sviare l'attenzione, ad incanalarla là dove vuoi che arrivi. Mi spiazza il dover sintetizzare considerazioni relative alla persona che ho di fronte, così come il lasciarsi andare a commenti che se strappati dal loro contesto perderebbero tutto il loro valore. Ogni persona che entra in relazione con me deve percepire di possedere un posto riservato nella mia testa, un luogo in cui è ben certa di poter trovare tutto ciò che penso di lei, senza però potervi accedere. Questo è il sacrificio richiesto, in cambio del noleggio dello spiazzo. Va da sé che io difficilmente mi sbilanci; non è un non volersi esporre per timore delle reazioni bensì un volersi cullare nelle braccia dei pensieri che cambiano, integrandosi o demolendosi. Capisco la curiosità di voler accedere in modo diretto a ciò che pensa l'altro di noi, ma ciò ostacola l'espressione indiretta dei medesimi contenuti. Non chiedetemi quindi niente di globale; concedo solo frammenti, sempre che siano aggrappati a situazioni mirate e mai svincolati da esse.
Senza sfondo, anche il protagonista smarrirebbe il proprio ruolo.
2. "Riesci a vedere il lato positivo in ogni persona."
Riesco a vedere il lato positivo in ogni persona; è parzialmente vero. Ciò che arrivo ad intravedere, se vogliamo, è la giustificazione intrinseca ad ogni evento che la vita mi propina. Questa non è buona tendenza, per ovvie ragioni. Studiare psicologia è la formula perfetta, il codice che permette l'ingresso in quella magnifica stanza che è la comprensione. Il problema qui è riuscire a distinguere cosa sia più scusabile e cosa meno; contrariamente si tende a costruire una motivazione accettabile per ogni situazione e dinamica dell'altro. Il "lato positivo" che risiede in ognuno di noi è lì in bella mostra e non richiede sforzo di alcun tipo se non l'accostarsi predisposto alla comunanza.
3. "Ascolti ed osservi tantissimo."
Ascolto ed osservo tantissimo; è totalmente vero. Forse due delle attitudini che più mi caratterizzano, da un tempo indefinito. Parto dalla convinzione che tutto il trasmissibile transiti attraverso il canale comunicativo del linguaggio verbale, di natura a braccetto con il non-verbale. L'uno satura le lacune dell'altro, in un continuum che copre l'arco dell'esperienza relazionale. Spesso realizzo di stare esponendomi troppo, con gli sguardi, perché percepisco la nebulosa della soggezione. È necessario essere avvezzi al contatto non dissimulato con l'altro se l'obiettivo è quello di sostenere due occhi che sembrano scrutare nei ghetti interiori. Così come il calibrare le parole, molte volte considerato come mancanza di cose-da-dire. Niente di più sbagliato, poiché ci vuole estrema cura ed attenzione nel saperne dosare la giusta quantità. L'effetto è stimolare interesse nonché il desiderio di aprirsi sempre di più, a piccoli passi, felici di essere stati presi per mano. Il fine (perché un fine c'è) è condurre l'altro in luoghi che da solo faticherebbe a raggiungere o che, se raggiunti, troverebbe complessi da esplorare.
Il fatto è che io mi ciberei dei meccanismi che soggiaciono all'instabile equilibrio dell'individuo.

martedì 6 agosto 2013

Nei pressi della morte.

Se vi contraddistingue la tendenza (anche lieve) alla superstizione, almeno una volta nella vita vi sarà capitato di augurare le peggio cose a persone che, per un motivo o per l'altro, vi hanno arrecato un qualche danno. Nel più estremo dei casi, potreste aver bypassato la stazione comune di "Quel Paese" ed aver spedito le vostre vittime dirette in bocca alla morte.
Quasi nessuno s'è fatto originale, augurando all'altro un attacco di panico.
...

Succede che quando desideri ardentemente qualcosa, lo strazio derivante dal mero sfiorare sembra amplificare il bisogno del voler possedere. Così accade che l'assaggio della morte magnifichi la consapevolezza insita in ognuno di noi d'esser presenza di passaggio, sulla faccia della Terra. Non esiste nulla di peggio dello sperimentare la possibilità della morte ed ogni volta uscirne sì illesi fisicamente, ma disintegrati mentalmente. Cos'è quindi un attacco di panico se non un fugace accesso alla scomoda verità di essere mortali?
Non sorprende che i disturbi d'ansia siano una tra le diagnosi più comuni nella psicopatologia e che comportino (per esempio, negli Stati Uniti d'America) costi molto elevati, in termini economici per la società e di sofferenza per le persone che li manifestano. Dal punto di vista descrittivo, si caratterizzano per livelli d'ansia e di paura (dipendentemente dalle specificità di ogni disturbo) sopra la norma. In quanto frutto di attivazione psicofisiologica differente, è utile distinguere l'ansia dalla paura; nel primo caso, l'arousal è infatti moderato e induce irrequietezza oppure tensione, mentre nel secondo elevato con sintomi quali sudore profuso e difficoltà respiratorie. Entrambe le reazioni possiedono un importante valore adattivo garantito dall'azione del sistema nervoso autonomo per mezzo della divisione simpatica; se la paura ci avvisa di un pericolo imminente a cui opporsi con la lotta o, al contrario, dal quale fuggire, l'ansia ci permette di prevedere, individuare future minacce, consentendoci di affrontare oppure di evitare situazioni potenzialmente pericolose. In modo intuitivo si capisce come il non riconoscimento di attivazioni di questo genere possa condurre al mantenimento di circoli patologici che traggono alimento da convinzioni, stati mentali, che non rispecchiano la realtà. Se, per esempio, non sono in grado di riconoscere la risposta fisiologica d'ansia successiva ad una determinata situazione, tenderò ad interpretare le reazioni del mio organismo in modo distorto, compiendo un errore metacognitivo d'attribuzione del significato. Ciò non fa che aumentare la percezione del pericolo, dell'imminenza del potersi trovare nella situazione x tanto temuta che si è cercata di allontanare con ogni mezzo disponibile. Alla basa, perciò, vi è la mancanza di una viscerale alfabetizzazione emotiva al riconoscimento dei propri stati interni.

Il fobico, da intendersi quale strutturazione di personalità, o Organizzazione di Significato Personale in chiave costruttivista, si impegna in una serie di strategie che permettono lui di salvaguardarsi da uno o più eventi considerati distruttivi a prescindere dalla loro concreta essenza. L'illusione di poter controllare ogni situazione spiacevole fa perno su di un'esagerata considerazione di sé in termini di auto-efficacia: se, per esempio, sono convinta di riuscire ad evitare l'evento x, pur ingovernabile, nulla servirà a rendermi consapevole dell'inefficacia del mio agire su di esso. Così facendo, il fallimento non potrò che attribuirlo alla mia incapacità personale, al "non avere fatto tutto il possibile". Questo fa da incipit ad un logorio mentale senza tregua, rimuginio il cui risultato aggrava la già precaria condizione dell'individuo che ne sfrutta le potenzialità. Da qui diparte poi la tendenza a visualizzare unicamente il lato negativo dell'esperienza, con previsioni catastrofiche circa le proprie incolumità e sopravvivenza.
La crisi di panico è, pertanto, un miscuglio di travisamenti concatenati che conducono alla percezione di stare-per-morire, ivi sorretta dalle sensazioni di un corpo che si attiva esageratamente per far fronte ad una fonte di stress alla cui costruzione partecipa anche (e soprattutto) l'individuo.
Sembrerebbe proprio il caso in cui "chi è causa del suo mal pianga se stesso".