Sono contraria alla scelta d'iniziare un articolo, o un qualsivoglia scritto, con una definizione enciclopedica. Nonostante questo, l'importanza che per me riveste il concetto di appartenenza costringe le imposizioni intellettuali che mi sono posta a sciogliersi, temporaneamente. Sfrutto la versione web del Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana di Pianigiani; digito "appartenere" e ne riporto lo screenshot. Ormai siamo tecnologizzati.
Da qui, tutte le possibili espansioni ed applicazioni del termine; dall'ambito giuridico a quello di classe, dal tassonomico al geografico, dal gruppale al personale. Mi colpiscono soprattutto il "dicesi propriamente di cosa che fa capo e riferiscesi ad altra principale" ed il "Esser congiunto". Ora, al di là delle definizioni, sempre passibili di vincoli, vorrei spaziare all'interno della mia personale interpretazione del concetto di appartenenza.
Se è vero che ogni individuo, nel corso della propria esistenza, entrerà a far parte di numerose altre entità, è altresì vero che il sentimento viscerale di appartenere a tali entità non lo accompagnerà lungo l'intero percorso in modo a-selettivo e costante. Se vogliamo, l'estremizzazione concettuale del semplice "sentirsi soli in mezzo agli altri". Già il buon vecchio Maslow inseriva l'appartenenza all'interno della propria elitaria, piramidale, gerarchia dei bisogni. Non che serva, ma: alla base i bisogni fisiologici fondamentali come il nutrimento, il sesso ed il sonno; al secondo posto i bisogni di sicurezza come avere un'occupazione ed un luogo da poter chiamare casa; sul terzo gradino i bisogni di appartenenza come avere delle amicizie, essere portatori e riceventi d'amore famigliare o di coppia; sul quarto gradino i bisogni di stima come la necessità di autocontrollo e di rispetto reciproco; infine, all'apice, i bisogni di autorealizzazione come il percepirsi competenti, completi ed autoefficaci. In una parola, compiuti. Anche solo limitandoci a questa strutturazione è possibile comprendere il ruolo giocato dalla necessarietà dell'appartenenza. Intendiamoci, non basta fare-parte-di; bisogna sentirsi-parte-di. Non è un dettaglio; è il Pacifico a dividere questi due continenti.
L'esempio più classico è appartenere ad un gruppo, solitamente quello dei pari, anche se pari poi non si è mai. Si potrebbe chiamarlo gruppo dei ruoli, dal momento che l'omeostasi sembra dipendere solo da questi. Se devo portare un esempio tratto dalla mia quotidianità, da tre mesi faccio parte di un gruppo di lavoro in ambito di una breve attività di tirocinio, in università. Nonostante le sporadiche occasioni di socializzare a diretto contatto con gli altri componenti, sono stati diversi i momenti di scambio di opinioni finalizzati al raggiungimento di obiettivi comuni; caratteristiche, queste, che dovrebbero concorrere al mantenimento degli equilibri gruppali stessi. C'è anche da dire che il team di lavoro è un'entità fragile per natura, forse, una delle tipologie di gruppo più delicate da tenere in piedi. È molto semplice trascinare oppure esser trascinati, sia in positivo che in negativo. Ora, posso ripetermi di fare parte di una collaborazione tra colleghi, pur non sentendomene parte. Mentre sulla carta può non essere un problema, lo diventa dal punto di vista operativo, laddove alla tua consapevolezza sfugga il ruolo stesso esercitato dal tuo esserci, in quell'insieme.
Da qualche parte, nell'articolo, ho affermato che il sentimento d'appartenenza dovrebbe essere a-selettivo e costante. Nello specifico, io credo che l'attivazione emotiva del sentirsi parte di un qualcosa debba essere esperita indipendentemente dalla situazione ed in modo stabile. Non affermo, però, sia questo il punto di partenza; del resto, il tutto e subito non è possibile manco al ristorante. Sostengo invece che, pur essendo e dovendo essere un traguardo progressivo, riesca in qualche misura a caratterizzare, a dare sfumatura, all'omologata monocromia condivisa dal gruppo. Come spesso accade, è il coinvolgimento a declinare lo stato infinito ed indefinito delle cose.
Un'ultima considerazione. Sperimentare il malessere causato dalla non-percezione di appartenenza è paragonabile al divieto di non poter entrare a far parte di una nuova entità, soprattutto laddove questa sussista da tempo. Soprattutto laddove siano i componenti stessi ad ostacolare il cammino d'inserimento, vuoi per impasse personale, vuoi per un effettivo "non voglio tu faccia parte di una dimensione solo mia".
Bisogna chiedersi cosa succederà quando i respinti si stancheranno che venga negata loro, di continuo, la soglia dell'appartenenza; quando l'"Esser congiunto" non sarà che il rimpianto di coloro che mai ne hanno concesso la propria personalissima chiave.
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