venerdì 30 gennaio 2015

Continua a cercare.

Era appena il 4 di settembre quando mi dilungavo in profonde riflessioni sulla solidarietà femminile; in  Donne du du du, infatti, potete trovare la maggior parte dei dilemmi nuovi di ieri e vecchi di oggi. Dopo aver riletto l'articolo non posso che biasimarmi: tanta fatica per nulla. Mille vane speculazioni quando poi la risposta ti viene lanciata in faccia dall'esperienza, spiaccicandocisi come una torta alla panna dal gusto rancido. Non che avessi torto, dal momento che già sembravo propendere per l'inesistente applicazione del sensazionale concetto della "solidarietà femminile". Riservavo però un piccolo spiraglio per l'insinuarsi del dubbio. Ma quando mai.
A distanza di poco, ho avuto modo di sperimentare un duplice senso d'esclusione di matrice femminoide; pur nella nicchia della desolazione, due eventi illuminati. Anche se può sembrare sensazionale,  in realtà non lo è; la chiamano "arte della razionalizzazione". Per intenderci: lo sterco non ha mai cambiato odore poiché baciato dal sole, al massimo s'è rinsecchito. Lo stesso vale per le situazioni sgradevoli, che pur essendo chiarificatrici mai risultano facili da metabolizzare; al massimo le metti in quarantena. Mi venga perdonato il linguaggio poco ortodosso ma, del resto, pare sia l'unico che riesca a giungere là dove ci si prefigge debba arrivare. Anche l'aver coniato il termine "femminoide" un po' mi disgusta, data la mia vicinanza alle battaglie contro la discriminazione femminile. Eppure, quest'attuale dimensione di sfinimento misto ad afflizione fa di me una persona cinica. E qui siamo ben oltre la soglia della normalità.
A chi non è mai capitato di dover entrare a far parte di un gruppo già formato? Succede più spesso di quanto si creda: dalle squadre sportive alla famiglia del partner, dai team di lavoro alla comunità parrocchiale di non-so-che. Trascorriamo l'intera esistenza cercando di appartenere ad un qualcosa. In aggiunta a questo, è ancor più noto quanto sia difficile accumulare la fiducia necessaria a renderti un degno membro del gruppo agognato. Un cammino che non si saprà mai se e quando giungerà al termine, se e quando le risorse investite diventeranno la fonte di una qualche soddisfazione. Altre volte capita invece che tu nemmeno ci voglia provare a farti apprezzare, poiché hai già realizzato di non avere alcuna possibilità d'inclusione. Così facendo, arrivi a percepirti distante, eccessivamente lontano da tutto ciò che rende quel gruppo affiatato e coeso. Rimugini su cosa ti differenzi dagli altri e se ciò sia sufficiente a giustificare il Canyon che ti separa dall'orizzonte relazionale. Poi arriva il momento in cui nel sovraeccitamento generale incorri in un angolo di tranquillità: fermo a prendere fiato, riconsideri la posizione di chi ti circonda ammettendo che forse ci potrebbe essere un qualche elemento di distorsione dapprima non considerato. Del resto, è ciò che sempre accade laddove ci si addossino responsabilità non proprie. Con un quarto di verità stampato in faccia allora ti volti in direzione del gruppo di donne che ti ha ignorata per tutta la sera, evitando un anche minimo barlume di contatto visivo. Quell'agglomerato di pensieri e valori condivisi che nemmeno ha mostrato una punta d'interesse per spiare all'infuori di se stesso. Uno di quei rari momenti in cui riesci a sperimentare lo stato d'animo dello straniero, scisso tra le altrui proiezioni di preoccupazione e diffidenza. E se esiste una categoria circospetta per natura, questa è quella femminile; non serve aggiungere altro, assodato che di motivazioni biologiciste se ne conoscono tante.
Dal momento che le variabili della diffidenza e dell'avversione per il nuovo (o per il rischio) sono pericolosamente associate al non-agire femminile, caso vuole che non mi sia fatta mancare nemmeno una situazione in cui tali fattori fossero assenti. Infatti, se è complesso farsi strada tra vagine sconosciute, dovrebbe essere più semplice sopravvivere all'interno di un novero di vagine conosciute. None, oggi è tempo di smentite. Il mio unico errore, in questo caso, è stato quello di sopravvalutare il significato dei gesti compiuti in mesi e mesi di amicizia, sottostimando l'altrui propensione (forse inconsapevole) a smantellarti l'ansia con la trivella dell'angoscia. Nulla sembra essere mai abbastanza in fatto di legami; un'altra convinzione tipicamente femminile, del resto. L'idea, o il presagio, di essere stati bannati dai vostri stessi gruppi senza un apparente motivo, come vi farebbe sentire? Che vi renda tristi oppure vi lasci indifferenti, credo che comunque stareste peggio del realizzarlo con certezza. L'inevitabilità dei fatti non è quindi più lieta di un possibilismo sorretto dal sentimento della speranza?
Detto ciò, sarò onesta. Avrei dovuto pubblicare questo articolo ancora qualche settimana fa, nei giorni stessi in cui è stato scritto. Invece, per ragioni a me ignote, ho continuato a tergiversare; ma sì domani, finisco di studiare e lo rileggo, il titolo non è quello giusto, ed altri modi di procrastinare. Come se una minuscola porzione di me non ci credesse fino in fondo. Come se in realtà fossi ancora in allerta, magari in attesa del dettaglio che avrebbe potuto falsificare le mie convinzioni.
Come se fosse la speranza stessa a sperare che una persona come me potesse lasciare aperto un varco all'insinuarsi del dubbio. 

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