venerdì 25 ottobre 2013

Che dolori, il senso comune.

Di seguito, alcuni proverbi di matrice nazional-popolare. Tema: la pazzia. Li ho suddivisi per associazione d'idee. I completamenti sono brevi considerazioni di petto, senza troppo ragionare su significati più o meno sottesi. Il risultato? Piuttosto bislacco.
1. Pazzia-saggezza.
  • A pazzo relatore, savio ascoltatore. Perché le parole sono importanti. Ancor meglio se taciute. 
  • Non è sempre savio chi non sa esser qualche volta pazzo. Dev'essere una bella storia, la flessibilità. 
  • Pazzo per natura, savio per scrittura. Quanti ne conosci che dovrebbero il loro equilibrio alla penna?
  • Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente. Azzecchiamo i momenti sbagliati per intervenire; falliamo i momenti giusti per ammutolire. 
  • Vi sono dei matti savi, e dei savi matti. E dei matti-matti ma savi-savi.
2. Paragone pazzia-fanciullezza/buffonaggine.
  • Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla. Tanti dicono anche alle donne. Immagina allora un pazzo fanciullo femmina. 
  • I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro. Ed un demone dalla nostra.
  • I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono. E' ciò che non vogliono dire quello a cui bisognerebbe prestare attenzione. 
  • Pazzi e buffoni hanno pari libertà. La non-stupidità. 
3. Definitorio.
  • Ai pazzi si dà sempre ragione. Quando non accade, tranquillo, che vengono a prendersela. 
  • Basta un matto per casa. E come ci rimane in piedi, se costituita da un unico ed incompleto mattone? Rimpiangiamo i muri di una volta. 
  • Chi nasce matto non guarisce mai. Diffidare da chi nasce, cresce e vive da guarito, poiché muore da malato. 
  • Con i matti non ci son patti. E chi te li ha chiesti!
  • Testa di pazzo non incanutisce mai. Me ne verrebbe una, ma soprassiedo.
4. Vita relazionale.
  • Alle barbe dei pazzi, il barbiere impara a radere. Per una volta, soli uomini. 
  • Loda il pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare. Loda il fallo e, se lo fai saltare, pazzo lo farai diventare.
  • Un pazzo ne fa cento. Li cerco all'infuori oppure sono tutti rannicchiati nella sua mente?
5. Evitamento.
  • Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata. Un matto ti fugge per migliorarsi il quotidiano. 
  • Chi non crede di esser matto, è matto davvero. Adesso, tutti pensano di avere qualcosa fuori posto perché va di moda. 
  • Non mettere il rasoio in mano a un pazzo. Non se chirurgo di professione, almeno.
6. Generico.
  • I pazzi crescono senza annaffiarli. Da soli, senza sole. 
  • La roba dei pazzi è la prima ad andarsene. Avevo un prezioso tanto carino, una volta. 
  • Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo. Non che i ritardatari siano meglio. Sballati sono i ritmi circadiani. 
  • Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia. In questo caso vi fa comodo, eh?
  • Non tutti i pazzi stanno al manicomio. Non tutti i sani ne stanno al di fuori. 
  • Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe stridere. Se posi l'orecchio, sentirai che sono le urla ad ottundere lo stridio. 
  • Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo. Le foglie come le devo considerare? Pensieri che cambiano colore e posizione a seconda delle stagioni?
7. Agire.
  • Non tutti i matti rompono i piatti. Certo che no; personalmente preferisco i bicchieri. 
  • Ogni matto fa il suo atto. A dispetto dei sani, però, privo di trucco o mascheramento. 
  • Ogni pazzo vuol dar consiglio. Contrariamente, non saremmo in coda per diventare psicoterapeuti. 
  • Pazzo è colui che bada ai fatti altrui. Da buon voyeur, poiché guardarsi non è tanto appagante. 

giovedì 17 ottobre 2013

Circuìti dalla soggezione.

Martedì 15 sono stata la cavia di un esperimento di psicofisica al CIMeC (Centro Interdipartimentale Mente/Cervello) di Rovereto. Questa non era di certo la mia prima volta, poiché sono ormai tre anni che cerco di partecipare attivamente alla ricerca scientifica, quando me ne viene data la possibilità. Non è nemmeno la prima volta che vengo sottoposta ad un esperimento che, in un modo o nell'altro, collega i colori con un qualche aspetto della realtà (per esempio, il ruolo del contrasto nella percezione di una profondità). La partecipazione odierna ha stimolato in me una riflessione che dal titolo si direbbe nulla possa centrare con il contenuto effettivo dell'esperimento. Questo è vero ed infatti non mi soffermerò di certo sugli aspetti metodologici né di contenuto di questo, bensì sul ruolo giocato dalla somministratrice nel contesto.
La maggior parte delle volte, lo sperimentatore non è l'ideatore delle ipotesi di ricerca e degli stratagemmi mediante cui testarle, bensì un tirocinante prossimo alla laurea oppure un dottorando. E' capitato raramente che mi venisse sottoposto un esperimento dal suo diretto inventore il quale, in molti casi, svolge un ruolo di supervisione sull'operato dei propri studenti). Così oggi: somminstratrice, una ragazza che avrà avuto su per giù 25 anni, probabilmente alle prese con la stesura della tesi. Accanto a lei, in laboratorio, quella che doveva essere la docente, nonché ideatrice dell'esperimento a cui dovevo partecipare. Sono stata fatta accomodare davanti al monitor ed ho firmato le scartoffie di routine per il trattamento dati e consenso informato; al che, tutto era pronto e si poteva cominciare. L'esperimento era suddiviso in 5 blocchi, ognuno dei quali prevedeva una breve introduzione (quale spiegazione al compito da svolgere) affidata alla tirocinante. Da subito, ho percepito un'aura di subordinazione che avrei potuto toccare da quanto spessa, un gap incolmabile tra studentessa e docente. Lo sguardo basso, un lieve fremito nella voce, i discorsi frastagliati, le ripetizioni e, nonostante tutto, un'impeccabile (ed autodifensiva) modalità brusca d'approccio al partecipante. Giunte al terzo blocco, la conferma. Terminati i commenti d'incipit al compito, un'occhiata che se avesse parlato avrebbe suonato: "Fa' che non abbia sparato un mucchio di insulsaggini, ti prego!". Poi la luce s'è spenta (trial somministrati al buio perché la luminosità non interferisse con lo svolgimento) e l'esperimento è stato condotto a conclusione.
Il potere psicologico della soggezione è enorme, condizione in cui ti senti avvolto da un senso opprimente di timore alla vista di una particolare persona oppure di fronte ad una situazione che t'ispira manchevolezza individuale. Percepirsi intimiditi e considerarsi non all'altezza di uno standard ritenuto non eguagliabile sono entrambi fattori che esercitano pressione sul delicato meccanismo dell'auto-efficacia.

L'associazione d'idee più scontata che mi sovviene è la modalità d'attribuzione di significato per mezzo della quale un individuo con organizzazione depressiva dà struttura (ed interpretazione) al proprio bagaglio d'esperienza. Spaccature di rapporti importanti, l'attenzione selettiva per sfaccettature negative, la tendenza a colpevolizzare se stessi oppure gli altri circa le proprie mancanze oscillando fra inadeguatezza personale ed ostilità altrui, sono tutti fattori che concorrono all'assoggettamento al reale.

mercoledì 9 ottobre 2013

La sindrome della "persona giusta".

Una pillola scontata ma piuttosto interessante: se non trovi la persona ideale è perché tutte, potenzialmente, possono andare bene. Dal momento che, oggigiorno, si abusa di ogni termine (soprattutto se di matrice psicologica), ne approfitto pure io: una sorta di relativismo amoroso?
Mi stringo all'idea di Feyerabend secondo la quale è impossibile definire cosa, nel mondo, possa essere degno di rivestire una posizione privilegiata, lungo la via che conduce alla conoscenza. Come assimilo la scienza al mito, la religione alla magia, così non ho alcun potere di decidere quale sia lo strumento per mezzo del quale trovare risposte soddisfacenti ad ogni interrogativo che costella il quotidiano. Perché, se vogliamo, anche individuare una persona che ci rimanga accanto per un particolare periodo di tempo è una delle risposte auspicabili ai propri desideri. Laddove considerassimo ogni uomo (ogni donna) alla stregua di soluzioni diverse di un medesimo rompicapo, come fare per scegliere "quello giusto" se immersi in opzioni tutte di egual valore?
Concorderete con me nell'affermare che una tra le più abusate giustificazioni al proprio ed altrui agire sia: «Sono fatto così e non posso farci nulla». Quel "così" che racchiude un mondo tanto misterioso quanto irraggiungibile, per colui che osserva dal di fuori. Verrebbe sempre da chiedere: «Così come?». Ma dal momento che sono pochi quelli che si prendono la briga di riempire il "così" di informazioni per cui valga davvero la pena compromettersi con un'affermazione in tal misura priva di una sostanza effettiva, sembrerebbe che piaccia permanere nell'indefinitezza delle proprie posizioni. Capisco che a volte lo si faccia per risparmiare tempo, altre per liquidare un discorso ostico, altre ancora perché le frasi fatte esercitano sempre un non so che d'effetto, ma... siate sinceri con voi stessi. Credete di semplificare lo sforzo interpretativo di colui che vi tende un orecchio nell'obiettivo di ascoltare le vostre considerazioni? Non metto in dubbio, anche se vorrei, che siate grandi intenditori di voi stessi e che ciò vi valga la medaglia d'oro in self-consciousness, però sembra d'obbligo pensare anche a chi vi siede davanti.
Un esempio.
Se mi sento ripetere da dieci uomini diversi: «Tu puoi capire. Sono fatto così, ho pochi pregi ma molti difetti, come tutti», cosa pensate potrei trarne? Forse solo che ad ogni ripetizione aumenta la mia avversione per i luoghi comuni. Comodo pensare che sia io a dovermi sporcare le mani per dare un nome al pregio x ed al difetto y, quando invece dovrebbe essere intrinseca all'altro la voglia di manomettere una costruzione di pensiero tanto mancante quanto fastidiosa. Questo è come sostenere di non poter cambiare, una convinzione che rende l'individuo schiavo dei propri schemi, rigido, e per niente disponibile a stringere mano alla flessibilità. Che poi, cosa c'è di meglio del riuscire ad adattare la propria persona alla mutevolezza degli eventi? Laddove si rimanga uguali mentre tutt'intorno evolve, non è possibile di certo essere considerati dei buoni viaggiatori.
Una parola tanto cara alla biologia (ed anche a me) racchiude il senso di ogni questione: "adattamento". Quando realizzi che nulla di esterno combacia con i tuoi confini, non puoi che rimodellarne la superficie; è semplice. Quale sia il modo è peculiarità di ognuno, strategie che sono il frutto di pratica, prove ed errori. Forse, il piccolo nucleo che non cambia è l'unica certezza che un qualcosa di stabile ci sia; una nicchia isolata ma non per questo non influenzabile. Ogni fattore è una fonte di discussione, nonché una sorgente di dubbio.
Perché arrovellarsi nella ricerca dell'ideale quando invece potremmo godere dei benefici dell'accettazione del più adatto, a seconda del momento e della fase del nostro avanzamento cognitivo-affettivo? I matrimoni non si sfasciano a causa di facebook, così come le coppie non esplodono per meri capricci: muta l'ambiente e la persona intelligente (in senso psicologico rigoroso) si riconfigura. Ora, le caratteristiche dell'Altro che meglio collimavano con i miei confini non riescono più ad incastrarsi, come in precedenza, bensì creano dei gap d'incomprensione destinati solo ad espandersi. Un vuoto che si allarga è la cruda immagine della lontananza.
Ecco perché ad ogni periodo sembra corrispondere una specifica gamma di uomini o donne con cui si costruiscono relazioni; sempre considerando affidabili le categorizzazioni prodotte, s'intende. Lascio chiudere ad un'amica che di frequente mi ripete:
«Tutti io li trovo. La fase di quelli-delle-ex, poi gli storditi, i depressi, e adesso il periodo Dj! In comune hanno che tutti che non ci arrivano».