giovedì 28 novembre 2013

Rimani seduta.

In anticipo, chiedo scusa. Il contenuto di questo articolo, infatti, esula un po' dagli argomenti che mi sono ripromessa di trattare, nel blog. Eppure, non posso fare a meno di scrivere perché ho una tale inquietudine interiore che sono certa mi farà esplodere se non la rielaboro in qualche modo.

Accadde in un bel giorno di novembre, il 18, la creazione di una pagina spas-so-sis-si-ma sull'arcinoto facebook. Il titolo? "L'arte di essere cagna". Nelle informazioni, giusto per metter le mani avanti, viene riportato: "Il nome della pagina è scherzoso e non vuole offendere nessuno. Unisciti a noi per le migliori foto... Buon divertimento!"
Premessa: tutto sono fuorché la bacchettona moralista di turno. Commenti sul dubbio vestire di alcune donne dall'apparenza promiscue scappano anche a me, così come sorrisi d'intesa con le amiche alla vista di un fondoschiena femminile un po' troppo esposto. Ma qui si giace su tutt'altro piano. Il sito espone carne da macello costellata con frasi del tipo "secondo voi è cagna?" oppure "cagnona" oppure ancora "è abbastanza cagna per i vostri gusti?". Mi destabilizza maggiormente, poi, constatare come ai centocinquantamila iscritti appartengano molte, moltissime donne. Direte voi, donne che si sanno prendere sul ridere! Perché, diciamocelo, ciò di cui veniamo accusate è la mancanza di senso dell'umorismo, quella bestia rara che permette di fare due sghignazzate in compagnia, giusto? Un'ironia tinteggiata di squallore che non vogliamo tollerare, no? Poi stupida io, perché più parli in chiave negativa di una questione e più le dai risonanza; come la sessualità per i cattolici, insomma. Mi dico anche che si tratta di un'innocua moda temporanea destinata a dissolversi quanto prima, come molte delle pagine sui generis. Mai finirò di ripetere alla mia consapevolezza che l'individuo si modella a seconda delle circostanze e che un social nulla può contro la concretezza del vivere. Eppure, non sempre è così e sono molti i casi di gente che c'ha rimesso la faccia per aver concesso un'eccessiva confidenza alla rete.
...
Wow, mi aggiorno in tempo reale. Il giorno 20 di novembre è stata addirittura creata una comunità virtuale dall'omonimo titolo! Nelle informazioni, questa volta, viene svelato senza mezze misure che "Le cagne più in calore sono qui." Peccato conti solo quarantaseimila iscritti ma, non temete, è solo questione di tempo. Abbiamo anche un "La fabbrica della gnocca cagna", ottimo. Sembra che l'analogia sia molto gettonata. Evitiamo poi di sottolineare quante volte venga utilizzata come commento alle più disparate immagini si trovino nel web, perché un "bau bau" non guasta mai, soprattutto se contenuto in una nuvoletta di dialogo che esce dalla bocca di una ragazza.
Ora, a me hanno sempre insegnato come la sana ironia necessiti di circoscrizione; contrariamente, sono parole sconclusionate e di massa, reiterate senza il benché minimo barlume dei tempi e dei modi. Se cento persone sostengono l'argomentazione x, ciò non vuol dire essa sia vera. E' uno dei più antichi bias di ragionamento, suvvia, ed ha l'età dell'universo intero! Emulare l'ironia, quella effettiva e studiata ad hoc, non ti rende brillante bensì unicamente succube del conformismo più bieco possa esistere. Dopo il sorriso o la risata sguaiata che strappano alcuni commenti tutti uguali a loro stessi, cosa rimane? La certezza che appartieni ad un pensiero condiviso? Forse. La sicurezza che in giro ci siano altri che viaggiano sulla tua lunghezza d'onda? Probabile.
Ma il dubbio che tu sia uno tra i tanti, un anonimo, non ti stuzzica l'ego?

martedì 26 novembre 2013

La malattia del pensare.

«Quando non so cosa fare, rifletto.»
«Quando non so più cosa fare, rifletto.»
«Quando rifletto, non so più cosa fare.»

Tre affermazioni separate da un abisso.

Nel primo caso, il tipico esempio dell'istintivo: prima si agisce e successivamente si considerano gli antecedenti e le conseguenze. Lo spazio concesso alla componente verbale razionale è ridotto ai semplici titoli di coda perché ciò che conta sono le scene appena terminate.

Nel secondo caso, il tipico esempio del rassegnato: si provano tutte, alcune per dovizia di particolari si ritestano, ma i risultati lasciano un po' il tempo che trovano. Come ultimo appiglio, addentare un frutto, seppur acerbo, del pensiero. Legherà lievemente in bocca, ma è sempre meglio che morire per fame di risposte.

Nel terzo caso, il tipico esempio del rimuginatore: e qui la questione si complica.

Il rimuginio rappresenta una tipologia particolare del pensare caratterizzata da una sovrabbondanza di pensiero verbale con polarità negativa, evitamento cognitivo ed inibizione della processazione emotiva (Borkovec, 1998). Detto in altri termini:
  • dal punto di vista quantitativo, il tempo che dedico a congetturare l'eventualità di esperienze future negative è pervasivo: una tendenza a previsioni catastrofiche che conduce, per esempio, al considerare sistematicamente l'ipotesi peggiore contenuta in un ampio spettro di possibilità; 
  • sfrutto una modalità di conoscenza basata sull'estraniazione: interna, quando non avverto emozioni e pensieri se non sotto forma di malessere, esterna laddove escludo qualsiasi verifica rispetto alle mie convinzioni;
  • il mio disimpegno dal materiale emozionalmente carico ha una massiva influenza sulle risposte fisiologiche prodotte dalla divisione simpatica del sistema nervoso autonomo: tale gestione razionale delle emozioni sgradevoli, pertanto, mi tutela dall'ansia.
Da ciò risulta in qual misura il rimuginare possa determinare alcuni stati maladattativi in cui l'inibizione di emozioni spiacevoli è la miglior complice nel persistere delle emozioni stesse, nonché lasciapassare per viziosi processi psicopatogeni di mantenimento. 
Viene da chiedersi allora, date le inevitabili conseguenze, perché il rimuginio venga impiegato come utile strategia d'approccio al contesto interno ed esterno dell'individuo che ne fa uso. Tradizionalmente, il riferimento si distingue se vengono considerati scopi sul breve oppure sul lungo periodo. Alla prima categoria appartengono i casi di rasserenamento transitorio, nei quali il rimuginio riesce ad attutire il tanto temuto impatto distruttivo originatosi dall'attivazione neuropsichica delle emozioni negative. La convinzione è che «più ci penso e meno mi angustio». Per contro, alla seconda categoria appartengono i casi in cui ti convinci che è grazie al rimuginare se risolvi uno dei tanti problemi che ti attanagliano, un'illusoria strategia di problem solving, poiché l'elaborazione di piani d'azione efficaci viene ostacolata dalla mancanza di un anche minimo grado di concretezza nell'elaborazione mentale dell'informazione. A volte, poi, ad una soluzione ci si arriva ma sarebbe meglio se se ne diffidasse: per la maggiore, infatti, si riscontrerà essere sbagliata. Ancora, sul lungo periodo il rimuginio aiuta, se così si può dire, a distrarsi da previsioni ostili; alcuni studi, per esempio, dimostrano come uno "worrier"* abbia "una rete di associazioni di eventi previsti negativi molto più ricca dei "non-worrier" (Vasey e Borkovec, 1992). Questo implica che il pensare in chiave negativa estenda, di volta in volta, il sistema associativo che accorpa le convinzioni disadattive di cui è schiavo il rimuginatore. Un terzo scopo si riconduce, se vogliamo, ad una funzione cara all'ansia psicogena, ossia all'anticipazione. In questo caso, l'individuo non cerca soluzioni pratiche ai suoi guai bensì allestisce uno "scudo emozionale" con l'obiettivo di prepararsi al peggio. La convinzione è che «pensare non mi aiuta a risolvere i problemi ma, laddove arrivassero, farà in modo che io possa sopportarli meglio».
Rimuginare arena in una posizione di stallo e procrastinazione perenne, sostituisce le normali strategie di risoluzione delle difficoltà e blocca l'accesso ad alternative percorribili rispetto agli scopi che è intenzione dell'individuo preservare. Rende vana la propensione (funzionale) a previsioni catastrofiche poiché induce alla contemplazione del "carattere terrifico" di una data situazione, impedendo la strutturazione di scenari entro cui questa potrebbe essere elaborata, di certo, in maniera più costruttiva.

* worrier: termine inglese che traduce l'italiano "rimuginatore". Da "worry", letteralmente "preoccupazione": tiene conto di una lieve sfumatura di significato, facendo riferimento alla componente emozionale del rimuginio.

giovedì 14 novembre 2013

Sfizi psicoterapici.

Sono settimane che non scrivo sul blog e, di ciò, me ne dispiaccio. Vuoi per l'inizio della preparazione universitaria in prospettiva di sessione, vuoi per l'attanagliante vita sociale, trovo sempre meno tempo da regalare alle mie riflessioni "pompate" circa tematiche cliniche e psicologiche che tanto m'affascinano. Oltre a questo s'unisce il fatto stia convogliando parte delle mie energia mentale e fantasia nella stesura d'un progetto di più ampio respiro: il tentativo di scrivere un libro.
Devo esser sincera, il termine "libro" mi spaventa ed al contempo elettrizza; pensare anche solo di poter soffiar vita all'interno di quattro pagine stampate è un qualcosa di meraviglioso. Anche per tale motivo, mi percepisco leggermente all'asciutto, un poco a secco d'idee. Inoltre, il mero spunto non è mai sufficiente alla stesura di un articolo, per breve e striminzito che sia, bensì richiede di tenersi aggiornati e, quindi (rientrando nel punto di criticità), d'avere tempo da spendere.
Questa mattina, però, sento di poter produrre una considerazione che, per quanto poco impegnativa possa essere, fiorisce da recenti aneddoti di vita quotidiana. Perché, diciamocelo, quando succubi delle medesime esperienze, due sole spiegazioni si configurano. O sperimenti un qualche scherzuccio della memoria, non so, come per es., flashback vividi, déjà vu e ricordi ricorrenti oppure l'altro (un altro generico) ti ripete sistematicamente le stesse cose.

Quando mi chiedono di cosa mi occupi, nella vita, due sono le strade che amo percorrere. Se la persona dinnanzi a me mostra un briciolo d'interesse rispondo in maniera estesa, della serie "studio scienze cognitive, un neonato ed interdisciplinare ramo di psicologia sperimentale". Laddove, per contro, la richiesta sia meramente contestuale replico cercando d'accrescere il nullo coinvolgimento manifestatomi, sulla scia di un "studio il cervello" (piccola variante sul tema che, sincera, suscita sempre un minimo sguardo interrogativo). Di rimando, il 90% delle volte mi preparo al guizzo di genio del personaggio che transita sul mio cammino: "Sarei un caso perfetto per te."
Boom, un altro da mettere in lista.
...
Ad oggi, se dovessi conteggiare le volenterose cavie che mi si sono presentate (e se già fossi abilitata alla professione), sarei milionaria ed in carriera, senza un attimo di tempo da dedicare al bricolage. Perché se ti vengo a raccontare che mi dedico alla comprensione della mente, tu, da buon interlocutore, non puoi che reagire mettendo sul ridere la tua condizione e quindi tentando di creare una barriera che ti separi da quel misterioso personaggio che potrebbe carpirti chissà quali segreti, se solo lo desiderasse. Generalmente, infatti, circola un'idea prototipica dell'individuo che categorizza ed interpreta i disagi mentali, a prescindere dall'applicare o meno tali considerazioni in sede d'analisi oppure per mero fine di ricerca: l'idea è che lo psicologo riesca a leggere il pensiero, e ciò, rigorosamente "da dietro", ossia dando la schiena al paziente che, nel mentre, racconta mestamente di sé e del mondo che lo attornia, per nulla comprendendo la condizione che lo frustra. Il solo fatto il termine "strizzacervelli" sia incluso nei dizionari di lingua italiana, e pertanto legittimato, fa ben comprendere la misura delle ingenue concezioni che dilagano. Io poi ne faccio questione personale; non concepisco che un profano sappia distinguere per funzionalità e specializzazione un otorino da un nefrologo, ma che scivoli in modo tragico quando chiedi lui di scegliere tra uno psicoanalista ed un cognitivista. Forse, mi dico, la difficoltà risiede nel discriminare tra due figure che, tendenzialmente, trattano disturbi identici benché ne diano interpretazioni e soluzioni molto diverse tra loro. Di comune, spesso, manco la denominazione delle medesime patologie! Questo guazzabuglio complica il quadro, non c'è che dire, ma la giustificazione non copre la vastità del problema.
Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dal dentista, capiterà io possa averne necessità e sarò obbligato a curarmi. Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dallo psicologo, capiterà io possa averne necessità e mi obbligherò a non curarmi.
La questione è delicata. E fastidiosa, a dirla proprio tutta. In aggiunta, non credo poi sia un problema di semplice scetticismo, bensì di convinto rifiuto; misconosco poiché temo. Una veterana, tra le strategie autodifensive. Da lato opposto, c'è chi invece considera l'andare da uno specialista alla stregua di una moda transitoria e per i pochi che se lo possono permettere. Distinguiamo. A questa categoria appartiene chi pretende "lo psicoanalista" perché si pensa l'unico in grado di svelare i più reconditi misteri dell'interiorità individuale. Che importa poi se s'instauri l'eventualità alla luce vengano portati vissuti inesistenti... Intanto, io ci vado! Di cosa sto parlando? Di sindrome da falsi ricordi, naturalmente. Non che sia prerogativa dei soli psicologi dell'inconscio, eppure è più facile sviluppi all'interno di una relazione terapeuta-paziente tanto invasiva qual è la psicoanalisi. In soldoni, avviene che pazienti particolarmente suggestionabili vengano indotti (in modo più o meno involontario) a rievocare esperienze in realtà mai sperimentate. Ciò sulla scia di una teoria parapsicologica priva di sostegno empirico alcuno. Tipico è il caso degli abusi d'infanzia.
E qui mi fermo.