giovedì 14 novembre 2013

Sfizi psicoterapici.

Sono settimane che non scrivo sul blog e, di ciò, me ne dispiaccio. Vuoi per l'inizio della preparazione universitaria in prospettiva di sessione, vuoi per l'attanagliante vita sociale, trovo sempre meno tempo da regalare alle mie riflessioni "pompate" circa tematiche cliniche e psicologiche che tanto m'affascinano. Oltre a questo s'unisce il fatto stia convogliando parte delle mie energia mentale e fantasia nella stesura d'un progetto di più ampio respiro: il tentativo di scrivere un libro.
Devo esser sincera, il termine "libro" mi spaventa ed al contempo elettrizza; pensare anche solo di poter soffiar vita all'interno di quattro pagine stampate è un qualcosa di meraviglioso. Anche per tale motivo, mi percepisco leggermente all'asciutto, un poco a secco d'idee. Inoltre, il mero spunto non è mai sufficiente alla stesura di un articolo, per breve e striminzito che sia, bensì richiede di tenersi aggiornati e, quindi (rientrando nel punto di criticità), d'avere tempo da spendere.
Questa mattina, però, sento di poter produrre una considerazione che, per quanto poco impegnativa possa essere, fiorisce da recenti aneddoti di vita quotidiana. Perché, diciamocelo, quando succubi delle medesime esperienze, due sole spiegazioni si configurano. O sperimenti un qualche scherzuccio della memoria, non so, come per es., flashback vividi, déjà vu e ricordi ricorrenti oppure l'altro (un altro generico) ti ripete sistematicamente le stesse cose.

Quando mi chiedono di cosa mi occupi, nella vita, due sono le strade che amo percorrere. Se la persona dinnanzi a me mostra un briciolo d'interesse rispondo in maniera estesa, della serie "studio scienze cognitive, un neonato ed interdisciplinare ramo di psicologia sperimentale". Laddove, per contro, la richiesta sia meramente contestuale replico cercando d'accrescere il nullo coinvolgimento manifestatomi, sulla scia di un "studio il cervello" (piccola variante sul tema che, sincera, suscita sempre un minimo sguardo interrogativo). Di rimando, il 90% delle volte mi preparo al guizzo di genio del personaggio che transita sul mio cammino: "Sarei un caso perfetto per te."
Boom, un altro da mettere in lista.
...
Ad oggi, se dovessi conteggiare le volenterose cavie che mi si sono presentate (e se già fossi abilitata alla professione), sarei milionaria ed in carriera, senza un attimo di tempo da dedicare al bricolage. Perché se ti vengo a raccontare che mi dedico alla comprensione della mente, tu, da buon interlocutore, non puoi che reagire mettendo sul ridere la tua condizione e quindi tentando di creare una barriera che ti separi da quel misterioso personaggio che potrebbe carpirti chissà quali segreti, se solo lo desiderasse. Generalmente, infatti, circola un'idea prototipica dell'individuo che categorizza ed interpreta i disagi mentali, a prescindere dall'applicare o meno tali considerazioni in sede d'analisi oppure per mero fine di ricerca: l'idea è che lo psicologo riesca a leggere il pensiero, e ciò, rigorosamente "da dietro", ossia dando la schiena al paziente che, nel mentre, racconta mestamente di sé e del mondo che lo attornia, per nulla comprendendo la condizione che lo frustra. Il solo fatto il termine "strizzacervelli" sia incluso nei dizionari di lingua italiana, e pertanto legittimato, fa ben comprendere la misura delle ingenue concezioni che dilagano. Io poi ne faccio questione personale; non concepisco che un profano sappia distinguere per funzionalità e specializzazione un otorino da un nefrologo, ma che scivoli in modo tragico quando chiedi lui di scegliere tra uno psicoanalista ed un cognitivista. Forse, mi dico, la difficoltà risiede nel discriminare tra due figure che, tendenzialmente, trattano disturbi identici benché ne diano interpretazioni e soluzioni molto diverse tra loro. Di comune, spesso, manco la denominazione delle medesime patologie! Questo guazzabuglio complica il quadro, non c'è che dire, ma la giustificazione non copre la vastità del problema.
Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dal dentista, capiterà io possa averne necessità e sarò obbligato a curarmi. Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dallo psicologo, capiterà io possa averne necessità e mi obbligherò a non curarmi.
La questione è delicata. E fastidiosa, a dirla proprio tutta. In aggiunta, non credo poi sia un problema di semplice scetticismo, bensì di convinto rifiuto; misconosco poiché temo. Una veterana, tra le strategie autodifensive. Da lato opposto, c'è chi invece considera l'andare da uno specialista alla stregua di una moda transitoria e per i pochi che se lo possono permettere. Distinguiamo. A questa categoria appartiene chi pretende "lo psicoanalista" perché si pensa l'unico in grado di svelare i più reconditi misteri dell'interiorità individuale. Che importa poi se s'instauri l'eventualità alla luce vengano portati vissuti inesistenti... Intanto, io ci vado! Di cosa sto parlando? Di sindrome da falsi ricordi, naturalmente. Non che sia prerogativa dei soli psicologi dell'inconscio, eppure è più facile sviluppi all'interno di una relazione terapeuta-paziente tanto invasiva qual è la psicoanalisi. In soldoni, avviene che pazienti particolarmente suggestionabili vengano indotti (in modo più o meno involontario) a rievocare esperienze in realtà mai sperimentate. Ciò sulla scia di una teoria parapsicologica priva di sostegno empirico alcuno. Tipico è il caso degli abusi d'infanzia.
E qui mi fermo.

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