venerdì 6 dicembre 2013

Missione Neutralità.

Se c'è un qualcosa che amo, nel quotidiano, è sapere che chiunque possa fare affidamento su di me. Un supporto mediante vicinanza mentale, s'intende, quel tipo di empatia equamente ripartita tra la compartecipazione percepita dall'esterno ed il distacco necessario sostenuto dall'interno. Uno stile d'orientamento al mondo di non semplice gestione, a causa di una tra le più ostili variabili che possano influenzare un giudizio neutrale: il coinvolgimento emotivo, quello pervasivo e fuori controllo.
Capita spesso che mi venga fatta notare una mancanza di spensieratezza e spontaneità all'interno delle relazioni umane, quel "lasciarsi andare" tanto osannato che piace alle nuove generazioni. Consapevole del gap, non posso che proporne un'interpretazione, un'idea che possa arricchiersi di nuovi tasselli ogniqualvolta una persona mi dia modo di ragionarci, osservandola dalle più svariate prospettive.
Per formazione, sono portata a coltivare la peculiarità che governa un individuo che si appresti alla pratica della psicoterapia. I manuali, nonché la vita professionale, ti richiedono di comprendere senza mai invadere il territorio del giudicare, di essere empatico ma allo stesso tempo imparziale, immancabilmente presente ma poco esposto, aperto all'ascolto ma con un orecchio rivolto alla tua individualità. Viene chiesto, in soldoni, di sapersi dosare. O come adoro pensarla io, di ridimensionarsi in funzione dell'unicità altrui. Ed è complesso, a volte persino frustrante e sminuente, perché porta a domandarti cosa rimarrà di ciò che sei se sistematicamente ti comprimi per lasciare posto all'altro. Se ogni tuo riconfigurarti non sarà dannoso sul lungo periodo, se avrai mai il bisogno ed il coraggio di parlare di te stesso, se le molte sfaccettature della tua persona formino, in realtà, un tutto coerente ed omogeneo. L'eventualità di dissolversi, poiché smarriti entro le più diverse sembianze, obbliga a schermarsi. E quando ciò si trasforma da uno stato transitorio ad un tratto stabile del carattere, i giochi sono bell'e che conclusi. A prescindere da chi ti siede davanti e dal problema che pone alla tua attenzione, verrà poi naturale l'esserci ed il non-esserci, contemporaneamente.
Con tutte le limitazioni del paragone, è come se fossi il secchio che raccoglie il rigurgito altrui sotto forma di parole e pensieri disfunzionali. Ma quel recipiente ci sarà solo nel caso in cui venga preparato; al contrario, il tutto si disperderà in ogni angolo, diventando invalidante. In questo eterno processo di riempimento-svuotamento, un ruolo cruciale viene svolto dal cosiddetto "pelo sullo stomaco", ovvero dall'attitudine a resistere alle peggiori esperienze possibili. Ancora, è utile pensare che nella pratica psicoterapica possa intervenire un qualche fenomeno di lieve discontinuità della coscienza, questo funzionale a creare una barriera tra sé e l'esterno. "Dissociarsi" non sempre è patologizzante; talvolta, infatti, può contribuire ad una sana difesa dell'organismo pensante. Per esempio, nei casi di numbing emozionale si esperisce una sorta di ottundimento emotivo che protegge dalla stimolazione esterna, consentendo alcuni comportamenti semi-automatici, nonché provocando un'accelerazione dei processi mentali.
Può sembrare che io sia assorta e non particolarmente presente, concordo, ma non bisogna però dimenticare cosa implichi, da parte mia, il pieno affondo in una dimensione che non mi appartiene. D'altro canto, questo non avviene indistintamente bensì in misura più o meno intensa a seconda dell'interlocutore. Perché se un amico racconta di sé, per quanto ci si sforzi di schiacciare il coinvolgimento emozionale sotto le suole delle scarpe, il risultato sarà sì buono eppure mai sufficiente. Per esempio, a volte capita mi accorga di essere troppo "dentro", altre invece di non "starci" affatto. Soprattutto a posteriori, quando ripenso alle dinamiche delle conversazioni avute.
Con le persone che ami è sempre tutto più difficile, per infinite motivazioni. Per le aspettative che hanno nei tuoi confronti, per l'investimento fatto, perché più sanno e più riescono comunque a fraintendere, per la volontà di ricambiare, per il timore tu ti possa allontanare, e via così. Vivi le relazioni con la consapevolezza che la neutralità che ti riempie e sostiene potrebbe essere meravigliosa, ma che tuttavia potrebbe anche concorrere a sfasciare l'intero rapporto. Ciò nonostante, non puoi che limitarti a dire che questo sia il pedaggio per accedere alla propensione mentale che incanala a diventare un buon professionista. L'incertezza delle mie stabilità in cambio del desiderio che induce l'altra persona a rendermi partecipe della propria vita. Poi beh, la convinzione che le persone ti cerchino solo "quando ne hanno bisogno" non sempre credo sia così negativa, anzi; semplicemente, andrebbe compresa. Le persone non cercano uno psicologo nel momento del bisogno, figurarsi in quello del non-bisogno.


Desidererei chiudere con un aneddoto. Lunedì ero in caffetteria, in università. Mi si avvicina il tecnico che gestisce la manutenzione delle macchinette e, tra una parola e l'altra, mi chiede: "Greta, può una persona che ci abbandona nei momenti brutti meritare di starci vicino in quelli belli? Perché quando le situazioni diventano un po' meno magia e cose meravigliose ti lasciano da solo?" Che dire, ho percepito tanta di quella sofferenza che se avessi potuto incidere l'atmosfera con una lama questa avrebbe pianto dispiacere e sconforto a non finire.
Davvero. Non c'è un momento peggiore di quello in cui vorresti pensare a qualcosa da dire, ma realizzi di non aver tempo a disposizione per farlo.

lunedì 2 dicembre 2013

Elettra mia, bimba adorata.

[…]

La cicala sull'albero è muta,
s'è svegliata l'intera borgata,
tutti sentono la serenata
che papà sta cantando per te.
L’acqua del fiume arriva dal mare,
se la mia voce ti arriva lassù,
papà stasera ti chiede scusa
se non t'ha dato qualcosa di più.

[…]

(Musiani, E. – Lauretta mia)

Non è la prima volta che cito la mitologia greca; in questo caso, il riferimento vola ad Elettra, figlia di Agamennone e Clitennestra. Il mito racconta che Clitennestra, invaghitasi del giovane Egisto, istigò quest’ultimo a macchiarsi di omicidio, contribuendo lei stessa all’uccisione di Agamennone. Elettra, turbata e sconvolta per la morte del padre, convinse Oreste, uno dei suoi tre fratelli, a vendicare l’affronto subito, ripagando la madre con la stessa moneta. La missione venne scortata anche da Pilade, figlio di Anassibia sorella di Agamennone, il quale venne infine sposato da Elettra.
Il mito fu ripreso da Freud cosicché servisse d’analogo al più celebre mito dell’Edipo re e, da qui, il "complesso di Elettra", secondo Jung definibile come il desiderio della bambina di 3–6 anni di impossessarsi del pene di cui si sente mancante, entrando così in competizione con la madre sia per averla concepita senza pene sia perché è l'ostacolo che si interpone tra lei ed il padre, suo obiettivo sessuale principale.
Areno temporaneamente l’argomentazione e riporto qualche aneddoto di matrice autobiografica.

Non sono un maschiaccio, ma.
All’asilo ero la bulletta dei Grandi; sotto il grembiulino mai che avessi una gonnella. Possedevo un Cicciobello a cui ho fatto patire le pene dell’inferno; una Barbie sottomessa al volere di Ken, Goku, Action Man ed all’amante biondo delle Bratz. Il primo bacetto lo diedi ad un tale di nome Mattia che, badare, avevo finito d’insultare un attimo prima. Avevo per amicheseguaci due gemelline dai capelli d’oro a caschetto ed un’orda di bambini che si compiacevano di compiacermi.
Alle elementari rincorrevo maschi e femmine indistintamente; ho perso il conto degli spintoni dati e ricevuti. Amavo il Milan, collezionavo personaggi Dragon Ball, macchinine e mattoncini LEGO; giocavo a GTA, Mortal Kombat e Gran Turismo, avevo il pallone sempre appiccicato ai piedi, odiavo le femminucce che andavano a cucito all’oratorio o che galleggiavano nell’aria dopo aver saltato la cavallina. Io, l’oratorio, lo raggiungevo unicamente per i videogiochi, il campetto di calcio e lo scivolo in mezzo alla fanghiglia. Sparavo all’Ultimo con la scacciacani e mi piacevano micce, micette, razzi e razzetti. Sognavo di essere un personaggio dei cartoni animati e d’insinuarmi così nel cuore della mia maestra prediletta. Avevo molte amiche che si sbalordivano che preferissi coltivarmi degli amici. Iniziai a ricevere frasi in sospeso e corteggiamenti ancor meno che taciti; un doppio lavoro interpretativo già dal principio. Per tutti ero “La Bara” e quando “La Bara” arrivava minacciosa con lo sguardo rivolto nella tua direzione, allora sì che potevi considerarti nei pasticci. Ho sempre desiderato far controllare i livelli testosteronici del mio organismo, in realtà. Disegnavo e scrivevo senza sosta; forse, le uniche due dimensioni in cui mi ricongiungevo con la porzione più sensibile della mia personalità in costruzione.
Alle medie capii cosa si esperisce in un corpo ed una mente di adolescente femmina; questo, unitamente al fatto di aver tastato con mano quali fattori venissero implicati nella condizione di potere alla forza psicofisica che soggioga i più deboli. Dall’indifferenza nutrita per le fanciulle alla loro animosa difesa, dall’abbattimento delle barriere donnauomo al desiderio di riappropriazione della propria condizione biologica.

Ad un attento esame (e se mi limitassi alle bislacche spiegazioni psicoanalitiche) dovrei prendere atto che provassi una tale invidia del pene, da:
  • amare alla follia mio padre; oggetto sessuale non unicamente finalizzato al piacere;
  • odiare alla pazzia mia madre; colpevole di avermi creata senza pene;
  • calcolare le modalità e le tempistiche per appropriarmi del pene di mio padre al fine di copulare con mia madre (la meta principe della pulsione sessuale naturale), nonostante la detestassi poiché rivale per il possesso del pene di mio padre.
Ora, tutto ciò conduce a dire che io bambina, frustrata dalla constatazione di non possedere il pene, abbia voluto emulare la condizione maschile impossessandomi di comportamenti ed atteggiamenti tipici "della categoria". Che poi s’incunea un dubbio: se possiedo mamma con un pene che non è quello di papà, è da considerarsi adulterio? Oppure va bene uguale poiché “è l’intenzione quella che conta”? Se non fosse un ragionamento circolare, forse reggerebbe anche.
Conoscere per abbattere, dicono.