sabato 27 aprile 2013

Cibo, mi disturbi.


Video noto e non troppo recente, il frutto di una campagna pubblicitaria di sensibilizzazione in merito ai sempre più diffusi disturbi dell'alimentazione o, per volerla dire in ottica costruttivista, Disturbi del Comportamento Alimentare. Ogni volta che lo visualizzo cresce un moto d'empatia; da pelle d'oca.
Una fanciulla si esplora davanti ad uno specchio, pizzica i fianchi, le cosce, le guance, ed una lacrima le percorre il viso quasi assorto, disperso nell'immagine distorta che le viene rimandata. Quasi alla stregua dello specchio, anche lei riflette: «Qualche cosa non torna, non dovrei trovarmi in questo stato. Oltre a controllare, monitorare e prevenire, cos'altro fare?».
Innanzitutto, si pensi ad una categoria nosografica globale in cui inquadrare i disturbi alimentari generalmente riconosciuti in ambito clinico (da DSM, per intenderci), ossia anoressia e bulimia nervosa. Al fine di parlare un linguaggio comune, infatti, gli specialisti adottano classificazioni descrittive per mezzo delle quali identificano una patologia dopo averne individuato alcune manifestazioni peculiari, quelle che comunemente definiamo "sintomi". Il rischio insito a questo modo d'agire, però, è la categorizzazione rigorosa a prescindere dal racconto autobiografico di ciascuno, riconducibile a quell'individuo ed a nessun altro. Questa parentesi è doverosa poiché una delle sfide più ardue, per i recenti approcci psicopatologici, è il passaggio dalla logica descrittiva alla logica esplicativa, quest'ultima più funzionale ai bisogni del paziente ed agli obiettivi terapeutici. Rimando a due pagine di Wikipedia che in breve spiegano i limiti ed i punti di forza di questo nuovo approccio alla comprensione ed al trattamento dei disordini mentali.


Armati della "strumentazione adeguata", diviene possibile ascrivere il comportamento anoressico-bulimico lungo un continuum evolutivo, lasciandosi alle spalle differenziazioni nette. Riusciamo in questo modo ad identificarlo come un sintomo ambivalente e multideterminato poiché spesso i pazienti manifestano una commistione delle due forme, oppure transitano dall'una all'altra nell'arco dell'esperienza patologica. Il substrato comune di anoressia, obesità psicogena e bulimia è un'organizzazione della conoscenza che si declina in forme differenti di espressione individuale (comportamentale) e che dipende dall'ambiente evolutivo-familiare e socio-culturale in cui l'individuo è immerso e di cui è costruttore attivo. Limitandoci a quest'ottica, nel comportamento anoressico-bulimico viene individuato un estremo tentativo di:
  • ottenere ammirazione, conferme;
  • sentirsi unici, speciali;
  • opporsi ad eccessive aspettative genitoriali;
  • sviluppare un senso di autonomia e di individualità, per esempio mediante la disciplina del corpo ed il controllo del cibo.
Oltre a ciò, tendenzialmente, si rilevano alcuni tratti cognitivi tipici:
  • una percezione errata della propria immagine corporea;
  • un pensiero infantile "tutto o nulla";
  • pensieri/rituali ossessivo-compulsivi;
  • un pensiero magico-persecutorio relativamente a sé ed alla realtà sociale.
Concludendo, il grande amore per le nozioni ora lascia spazio all'interpretazione: la società, oltre che alle famiglie ed ai pazienti, si trova a combattere un disturbo il cui sintomo profondo è una rivolta testarda ed emblematica verso il Sé attraverso il corpo, il raggio d'azione dell'individualità. Prima che alla patologia, sensibilizziamoci alla valorizzazione del corpo come strumento primo di interazione con il mondo e con gli altri, come entità che "agisce i nostri pensieri".    

martedì 23 aprile 2013

Lo studente di psicologia.

Sofferente di tutti i sintomi su cui si esprime, spauracchio che per altro l'accomuna con quello di medicina, lo studente di psicologia fluttua nel mare della frustrazione ed utilizza come unico appiglio un fantoccio ripieno d'indefinitezza. Esasperando la dimensione dell'incerto sino a mettere in dubbio la concretezza stessa del proprio esistere nello spazio e nel tempo, non può che fare affidamento sulla curiosità, la forza motrice che lo spinge ad andare oltre, a non barattare il suo bagaglio di (limitata) conoscenza con un valigione indirizzato "Timbuctù, da domani cambio vita". Perché? Eccovi qualche motivazione.
  1. Se una persona non conosce alcunché di economia, banca e finanza, di certo non sarà invogliato ad intrattenere un discorso più o meno formale con un professionista del campo. In egual modo, un personaggio che nulla sa di psicologia dovrebbe annacquare la complessità delle variabili psicologiche con meri discorsi-da-bar. Ad ognuno il proprio raggio d'azione.
  2. La psicologia è una scienza, su questo non si può patteggiare. Se volete, posso però concordare con chi sostiene che non tutti gli approcci siano scientifici (Freudmerda!).
  3. La tentazione di trovare una giustificazione alle peggiori aberrazioni del comportamento umano è in così modo pervasiva da contemplare qualsiasi possibilità. «Tizio ha agito in quel modo perché la sua struttura di personalità non gli permette nulla di diverso»; «Tazio non è cognitivamente preparato ad affrontare le esperienze in modo adattivo ed efficace»; «Tezio è emotivamente inibito perché è stato precocemente costretto a costruire barriere tra sé e l'altro», e via così. Ci si immagini poi quando le spiegazioni si tingono di collegamenti (neuro)biologici, ormai imprescindibili laddove l'obiettivo sia quello di sondare i meccanismi della psiche. Il cervello produce la mente come i reni producono urina, scimmiottando una citazione di un neuroscienziato olandese di non troppo vago orientamento riduzionista. Per quanto sia, in parte, anche la mia prospettiva, non posso fare a meno di aprire gli orizzonti alla volta di soluzioni che siano sì descrittive ma al contempo esplicative. È necessario; l'oggetto d'indagine è troppo complesso per essere ri(con)dotto alla mera somma delle sue componenti.
E l'elenco potrebbe proseguire, non all'infinito ma quasi.

sabato 20 aprile 2013

Un evitante si dondolava appeso al filo di una ragnatela.

Pur trovando il gioco molto interessante, non andrà a chiamare un altro evitante.

Ancora un affondo nel mondo dei Disturbi di Personalità; in questo caso ci immergiamo nella dimensione del Disturbo Evitante di Personalità (DSM-IV-TR, gruppo C: ansioso/timoroso), una condizione morbosa che presenta qualche analogia con il Disturbo Schizoide di Personalità, argomento trattato nel precedente articolo.
Dal punto di vista della definizione, tutti sapremmo indicare il significato del termine "evitare": sfuggire/astenersi da-, fare a meno di-, scansare, cercare di non incontrare qualcosa o qualcuno e via così. Da psicologi in erba verrebbe poi spontaneo generalizzare quanto detto ad un individuo che soffre di una psicopatologia che ne assume la denominazione; corretto in parte. Proviamo a contestualizzare.
L'evitante si sottrae alle relazioni interpersonali e vive nell'impossibilità di condividere, di appartenere. Ha un'idea di se stesso come persona incapace ed incompetente in ambito sociale, convincendosi di essere predisposto ad esperienze di rifiuto ed umiliazione. Per intenderci, ha una paura fottuta di sbagliare, di ricevere feedback negativi dall'altro, di manifestare le proprie ansie, un po' di rossore, un imbarazzo schiacciante. L'ambito lavorativo è primariamente compromesso, in quanto la persona tende ad eludere i ruoli di responsabilità, ridimensionando aspettative ed ambizioni. Mentre lo schizoide è "oggettivamente" incapace di costruire relazioni stabili (non che ne sia interessato), i desideri dell'evitante sono globalmente direzionati all'appartenenza ed all'accettazione che derivano dal contatto con l'Altro significativo. Il pensiero è centrato su convinzioni del tipo «non ti posso lasciar avvicinare a me perché scopriresti quanto io sia inadeguato, inetto, ridicolo». Non a caso, è l'evitamento (emotivo, comportamentale e cognitivo) lo strumento adattivo di cui si serve il paziente affetto da Disturbo Evitante di Personalità per non incorrere in situazioni in cui vi sia in gioco, anche solo potenzialmente, la dimensione del giudizio. Infine, la disforia sembra essere la componente emozionale centrale, primaria; una sorta di ansia mista a tristezza.
Devo rinunciare agli obiettivi di vicinanza e condivisione in cui tanto spero, benché questo mi distrugga. Vorrei confidarmi, credere che il mio parere possa interessarti, accettare la contraddizione come eventuale e possibile traguardo. Vorrei farcela, davvero.

venerdì 19 aprile 2013

Beata autonomia!

Ascrivibile alla categoria diagnostica Disturbi di Personalità, il Disturbo Schizoide di Personalità (DSM-IV-TR, gruppo A: strano/eccentrico) è di certo tra quelli che maggiormente stuzzicano la mia immaginazione. Forse perché me ne trascino dietro alcuni tratti e, da brava studentessa, ne prendo atto. Conoscere stimola la comprensione, la comprensione motiva l'auto-efficacia e l'auto-efficacia induce una buona stima di sé, anche laddove alcune caratteristiche individuali cozzino un poco le une con le altre. Nessun problema, di tempo per esibire bandiera bianca ce n'è a fiumi; meglio coltivare minuti da dedicare alle piccole guerriglie del quotidiano.
Ad uno schizoide non interessa nulla di te, di come vivi e ti comporti, di quali siano le tue aspettative, se e per mezzo di chi raggiungerai i tuoi obiettivi. Un individuo così strutturato brilla di luce propria, si ciba di libertà d'azione condita a distacco emotivo, non permette lo "invischino" in faccende superficiali e per lui di alcuna importanza o interesse. Per uno schizoide non può esistere relazione sociale sana ed "autosufficienza" è la parola d'ordine, la chiave d'accesso ad una qualunque situazione. Visibili sono gli atteggiamenti di chiusura, una difesa adattiva che si è sviluppata per far fronte ad eventi come una convivenza oppure confronti obbligati con gli altri.
Alza lo sguardo e volgilo al di là del monitor; ecco, lo vedi? Lo schizoide ti siede di fronte, impassibile, estraniato (dissociato?), indifferente ai complimenti così come alle critiche, noncurante del giudizio altrui. Incrocerà per caso il tuo sguardo, forse, ma non aspettarti ricerchi spontaneamente la compagnia, né una parola di conforto od anche solo di circostanza. Procede da solo e se potesse abolire i gruppi di lavoro proporrebbe team di ricerca rivoluzionari poiché singoli, schermati, a prova d'intrusione.
D'impatto, manifestazioni comportamentali di questo tipo risultano incomprensibili, quasi fastidiose, ma è necessario non dimenticare che sono gli unici strumenti di cui un individuo con Disturbo Schizoide di Personalità dispone, le sole modalità per mezzo delle quali esprime il proprio universo interiore.

mercoledì 17 aprile 2013

L'amore?

NY, Kykuit Gardens, Temple of Aphrodite
(fonte: National Geographic)
Ho sempre avuto un debole per la mitologia greco-latina. È un universo affascinante, un dominio che esaspera le forze psicologiche nel tentativo di costruire caratterialmente i propri personaggi; protagonisti in cui ognuno potrebbe ritrovare un qualcosa di se stesso. L'individuo è infatti una narrazione dinamica, un continuum dimensionale che definisce un'identità specifica, unica.
Se eliminassimo il concetto di "amore" la maggior parte degli scritti, delle canzoni, dei documenti e dei film non esisterebbe; un tema davvero caro a generazioni intere per valere un impiego così massiccio di risorse. Perché?
Sono infinite le spiegazioni di cui disponiamo poiché chiunque s'è impegnato, almeno una volta nella vita, nel cercare di definire quale potesse essere il significato dell'amore. Soprattutto perché l'ambito è così vasto e multifattoriale da prestarsi a una molteplicità di letture in chiavi totalmente differenti. Quante tipologie ne conosciamo? Ma soprattutto, da quale prospettiva, con quale approccio le vogliamo individuare e spiegare? Un bel guazzabuglio, non c'è che dire. Io ne ho capito molto poco, ma desidero comunque riassumere la mia idea con una storiella più o meno verosimile.

Primo passo: l'innamoramento.
In principio era l'Ambiente, un caos di stimoli privi di significato poiché, potenzialmente, avrebbero potuto acquisirli tutti. Ecco arrivare il momento in cui quell'uomo a uno stimolo esterno (quella donna) e a più stimoli interni (un'attivazione fisiologica di un qualche tipo) attribuì un valore diverso, maggiore, nominale. Un filtro aiutò a isolare gli elementi utili dall'insieme di tutti gli elementi utili possibili e nulla fu più come prima.

Secondo passo: il corteggiamento.
Quell'uomo "sentì che dentro" qualcosa d'indefinito stava accadendo, come se una concezione nuova di sé e dell'altro avesse cominciato ad attraversarlo per intero. Muoversi, farsi guidare dal "cuore", agire o ragionare; qualsiasi tentativo pur di farsi notare, purché quella donna attribuisse un valore diverso, maggiore, nominale al lui-stimolo e alle proprie percezioni. Supponiamo quell'uomo abbia infine raggiunto l'obiettivo.

Terzo passo: perché il cerchio si chiuda.
Si ritorni al primo passo; segua il secondo. Questa volta declinati al femminile. E poi ancora al maschile. Al femminile. Al maschile. Al femminile. E così via, fintantoché ne valga lo sforzo. Laddove la catena si interrompa, a causa di quell'uomo oppure di quella donna, procedere al quarto e ultimo passo.

Quarto passo: e adesso?
In teoria, è amore.

martedì 16 aprile 2013

Mentalizzare un'emozione.

Esperire, sentire, manipolare; insomma, impossessarsi di un'emozione. Attenzione, in gioco non ci sono quelle altrui bensì le proprie. È paradossale il pensiero sia più semplice gestire le emozioni degli altri? Non direi. Riflettiamo un attimo; sin da piccoli siamo alla mercé delle figure di accudimento, i nostri punti d'approdo per risorse, cure ed affetti a prescindere dai quali sopravvivere sarebbe problematico. Un bimbo non apprende in autonomia a decodificare "ciò che sente dentro" ma ha bisogno di qualcuno che per lui fornisca un nome, una classificazione, un'etichetta. Perché i livelli sono due, inscindibili ed interconnessi: l'attivazione fisiologica da un lato, ciò che chiamiamo "emozione" e la rappresentazione mentale della stessa dall'altro, ciò che invece chiamiamo "sentimento". Non sono sinonimi ed è un'inesattezza concepirli come tali. Chi soffre di disturbi psicopatologici come, per esempio, disturbi da somatizzazione, in qualche misura manifesta una compromissione di questa seconda componente, ossia non è in grado di sopraelevare l'emozione, di "rappresentarla", di isolarla per l'attimo che basta a darle una definizione. E' una tragedia.
Hai di fronte una persona che non riesce a leggere se stesso, che non ti sa dire se quello che sta provando sia rabbia, tristezza, gioia, disgusto, o addirittura caldo, freddo, spossatezza, sonnolenza e così via. Una persona che ha un bisogno estremo del tuo giudizio per definirsi, per aggiungere tasselli alla propria identità, ad un Sé costruito dall'esterno come riflesso di attribuzioni di altri. Se potesse, ti chiederebbe: «Da ciò che hai potuto vedere e per quanto mi conosci, dimmi cosa voglio. Desidero un gelato vaniglia e cioccolato oppure fragola e limone? Preferisco un bagno nel mare ad una passeggiata in montagna? Amo lo sport in cui investo tempo ed energie per raggiungere risultati importanti o questo è perché temo che il contrario possa deluderti?».
E se da un lato la comprensione dei propri stati interni risulta inaccessibile, dall'altro l'abilità nell'afferrare le dinamiche esterne è massima. Una magnifica e spiazzante disgiunzione! Come può una persona "non capire nulla di sé" e poi leggere le più sottili sfumature e sfaccettature dell'altro? Semplice, nel corso dello sviluppo ha appreso che non sempre azioni e parole vanno di pari passo con le intenzioni ed esperirlo sistematicamente, fin dalla più tenera età, crea uno scompenso che lascia il segno (che lascia il sintomo, se vogliamo giocare con le parole). Un pensiero del tipo «la mamma è qui accanto e mi accudisce, però con la mente sembra altrove», crea un'incongruenza tale per cui a strutturarsi è un legame discontinuo, poco sano, tra ciò-che-vedo e ciò-che-sento. A cosa dare retta? Se ciò-che-sento guadagna unicamente rinforzi negativi da parte della figura da cui dipendo, dovrò rinunciare in fretta alle mie attribuzioni di senso perché non posso rischiare di rimanere scoperto, solo.

sabato 13 aprile 2013

Problemi di terminologia.

«Sai l'altra sera, no? Dovevo uscire con quella di cui ti ho un po' parlato.»
« Certo, ricordo! Dai, racconta... come ti è andata?»
« Te la faccio breve, è una frigida del cazzo! L'ho capito subito, io.»
« Ah, mi spiace. Brutta razza quelle. Ma non pensarci, ti rifarai.»

Ora, è bizzarro che nel 2013 sia ancora in auge il termine "frigidità". Ancora più strano è che venga impiegato da uomini e donne, quasi indistintamente. E se nel primo caso l'obiettivo è, per esempio, giustificare una serata priva di piccante dopo-cena, nel secondo caso le motivazioni si accavallano: competizione, invidia, non volerci mettere del proprio per andare oltre. Specifico, non mi soffermerò a parlare di rapporto tra donne, contrariamente il dialogo iniziale non avrebbe ragion d'essere. Poveri uomini, sempre presi di mira! In questo caso sì, vi meritate una critica feroce.
Comunemente definita "frigidità", concezione che trasuda stantio, il disturbo dell'eccitazione sessuale femminile (DSM-IV-TR)* è riconosciuto e diagnosticato, inscritto nella macrocategoria "disfunzioni sessuali". Per di più, si accompagna con un altro disturbo molto caro alla compagine maschile, quella che (sempre comunemente) viene definita "impotenza", ossia il disturbo maschile dell'erezione. Due dimensioni speculari, non trovate? Sembrerebbe che maschio e femmina si completino anche nella patologia. Uomini cari, il punto critico è la demonizzazione di una condizione che avete in parte contribuito a strutturare, in millemila anni di sottomissione. Com'è che riuscite a pensare, addirittura a sostenere, che le donne trovassero una motivazione per tenere alti gli standard delle loro prestazioni sessuali, quando loro veniva negato il diritto minimo all'appagamento? Perché mantenere un'eccitazione costante se l'unica a goderne era la patria? La spinta biologica alla conservazione della specie giustifica in parte, ma non satura il quadro delle spiegazioni possibili.
Gli anni così passavano e le donne iniziarono a costruire un'organizzazione cognitiva ed emotiva particolare nel tentativo di attenuare lo scompenso: in questo caso, una difesa adattiva che permise loro di evitare rapporti sessuali infelici.

* Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, edizione quarta riveduta. Sistema diagnostico adottato negli USA. Siamo in attesa della quinta.

Rompere il ghiaccio.

Aprile, venerdì 12. Infiammata delle quattro pomeridiane, scrivere un blog. Come se il tempo a disposizione non fosse già scarso di suo, mi dico. Bisognerebbe analizzare gli antecedenti, è risaputo, ma delego il compito a chi ne possiede maggior capacità.
Due parole che inquadrino a grandi linee chi sono. Greta, 21 anni, studentessa al II° anno di un percorso di studi noto solo ai frequentanti: Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva, il pressoché recente indirizzo e nuovo orizzonte della ricerca sperimentale in psicologia. Ebbene sì, anche gli psicologi sono scienziati! Enfatizzo perché non sembra che il concetto sia così scontato per la moltitudine, forse convinta del fatto gli "strizzacervelli" appartengano ad una comunità informe ed indefinita di menestrelli d'altri tempi. Non è poi una concezione così sbagliata se pensiamo ala parola come lo strumento principe del terapeuta, qualunque sia il suo approccio. Ma questo non basta, o almeno, non più. Ci sarà tempo per argomentare questa posizione, più in là magari.
Il tentativo è cercare di non rendere tediosa la lettura di queste pagine anche se è il rischio insito ad ogni blog. Ne frequento alcuni e spesso la tentazione di interrompere articoli che sembrano infiniti si presenta al ritmo di uno su tre. Motivo per cui passerò in rassegna, a strascichi di parole, gli argomenti che non mi fanno dormire la notte ed eviterò di dilungarmi in riflessioni articolate; sfida che invece lancio ai lettori. Schiodarsi dalla comodità di trattazioni chilometriche in cui resta ben poco da dire, infatti, penso possa stuzzicare la dimensione interpretativa propria di ciascuno. E se rispetto ad un testo di molti caratteri commentare non costa poi una fatica estrema, siamo sicuri lo stesso valga per brevi storielle? Per esempio, non è molto più semplice uno scambio di opinioni sulla prosa di Pirandello anziché sulla poesia di Ungaretti? Scrutare fra le righe è appagante il doppio laddove le parole siano state utilizzate con parsimonia, lasciando all'altro la possibilità di costruirne, demolirne e ri-costruirne i significati.
Infine, non essendo io un clinico mi limiterò alla letteratura e non alla pratica scientifica, facendo delle idee il mezzo mediante cui supportare ed al tempo stesso falsificare ciò che scriverò.
Perché la scienza è una certezza solo nel momento in cui lo scienziato sia consapevole di non possederne alcuna.