martedì 16 aprile 2013

Mentalizzare un'emozione.

Esperire, sentire, manipolare; insomma, impossessarsi di un'emozione. Attenzione, in gioco non ci sono quelle altrui bensì le proprie. È paradossale il pensiero sia più semplice gestire le emozioni degli altri? Non direi. Riflettiamo un attimo; sin da piccoli siamo alla mercé delle figure di accudimento, i nostri punti d'approdo per risorse, cure ed affetti a prescindere dai quali sopravvivere sarebbe problematico. Un bimbo non apprende in autonomia a decodificare "ciò che sente dentro" ma ha bisogno di qualcuno che per lui fornisca un nome, una classificazione, un'etichetta. Perché i livelli sono due, inscindibili ed interconnessi: l'attivazione fisiologica da un lato, ciò che chiamiamo "emozione" e la rappresentazione mentale della stessa dall'altro, ciò che invece chiamiamo "sentimento". Non sono sinonimi ed è un'inesattezza concepirli come tali. Chi soffre di disturbi psicopatologici come, per esempio, disturbi da somatizzazione, in qualche misura manifesta una compromissione di questa seconda componente, ossia non è in grado di sopraelevare l'emozione, di "rappresentarla", di isolarla per l'attimo che basta a darle una definizione. E' una tragedia.
Hai di fronte una persona che non riesce a leggere se stesso, che non ti sa dire se quello che sta provando sia rabbia, tristezza, gioia, disgusto, o addirittura caldo, freddo, spossatezza, sonnolenza e così via. Una persona che ha un bisogno estremo del tuo giudizio per definirsi, per aggiungere tasselli alla propria identità, ad un Sé costruito dall'esterno come riflesso di attribuzioni di altri. Se potesse, ti chiederebbe: «Da ciò che hai potuto vedere e per quanto mi conosci, dimmi cosa voglio. Desidero un gelato vaniglia e cioccolato oppure fragola e limone? Preferisco un bagno nel mare ad una passeggiata in montagna? Amo lo sport in cui investo tempo ed energie per raggiungere risultati importanti o questo è perché temo che il contrario possa deluderti?».
E se da un lato la comprensione dei propri stati interni risulta inaccessibile, dall'altro l'abilità nell'afferrare le dinamiche esterne è massima. Una magnifica e spiazzante disgiunzione! Come può una persona "non capire nulla di sé" e poi leggere le più sottili sfumature e sfaccettature dell'altro? Semplice, nel corso dello sviluppo ha appreso che non sempre azioni e parole vanno di pari passo con le intenzioni ed esperirlo sistematicamente, fin dalla più tenera età, crea uno scompenso che lascia il segno (che lascia il sintomo, se vogliamo giocare con le parole). Un pensiero del tipo «la mamma è qui accanto e mi accudisce, però con la mente sembra altrove», crea un'incongruenza tale per cui a strutturarsi è un legame discontinuo, poco sano, tra ciò-che-vedo e ciò-che-sento. A cosa dare retta? Se ciò-che-sento guadagna unicamente rinforzi negativi da parte della figura da cui dipendo, dovrò rinunciare in fretta alle mie attribuzioni di senso perché non posso rischiare di rimanere scoperto, solo.

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