martedì 28 maggio 2013

Help yourself.

"Non ce la faccio più, devo chiedere aiuto."
Può capitare, in un qualche momento della vita, di trovarsi in una situazione tale per cui risulta impossibile farcela da soli, laddove consapevoli di un disagio che logora dall'interno. E' l'attimo in cui le già fragili difese crollano, in cui la luce in fondo al tunnel altro non è che un bilico in fase d'avanzamento. Per la prima volta realizzi di aver sempre negato, di esserti rifiutato di inquadrare i tuoi malesseri in un qualcosa che fosse più strutturato del classico "sono fatto così, poi passa". Immagino tu abbia perso il conto delle volte in cui una frase di questo tipo, ribellandosi, sia fuoriuscita dalle tue labbra. La prima volta l'hai ignorata, la seconda zittita, la terza ricacciata in un angolo remoto della mente, la quarta vomitata rabbioso, la quinta finalmente hai provato a contrastarla ma ti sei accorto di quanto fosse distruttivo il suo passaggio. Cosa fare, soccombere? Dipende da ognuno ed elemento centrale è la motivazione; con ciò s'intende che prescindere da questa sbarra la strada a qualsiasi intenzione all'azione, sino dalla più tenera età. Non a caso, i Sistemi Motivazionali Interpersonali giostrano per intero la complessità del comportamento umano. Ne sono stati individuati cinque: agonistico, dell'attaccamento, della cooperazione, dell'accudimento e della sessualità. Nella pratica clinica non si è mai trovato un paziente che non manifestasse malfunzionamenti in uno od anche più di questi sistemi, a riprova di quanto siano significativi nell'espressione di un percorso evolutivo sano oppure patologico.
Esternare una richiesta d'aiuto non è cosa facile e la difficoltà cresce (o diminuisce) a seconda del disturbo, poiché differente è l'approccio stesso alle proprie individualità e presenza nel mondo relazionale. Evitando di cadere nello specifico, è sufficiente la distinzione tra disturbi egodistonici ed egosintonici a chiarire il perché di tale diversità. L'esempio calza meglio con i secondi; sono in sintonia con l'ego i Disturbi di Personalità ed il Ritardo Mentale. Ciò significa che in entrambi i casi, l'individuo non si rappresenta come "disturbato" poiché, vuoi per condizioni psicologiche vuoi per condizione biologiche, ha manifestato patologie di tratto (permanenti, pervasive) e non di stato (temporanee, sporadiche). Per esempio, se sono un istrionico (DSM-IV-TR, Disturbo Istrionico di Personalità, gruppo B: amplificativo/imprevedibile) lo sono a 360° per 365 giorni all'anno; non sono quindi in grado di considerare invalidanti tutti i miei comportamenti perché questo vorrebbe dire azzerarmi, cancellare il fatto ed il restante da fare. Non per nulla, si sostiene che i Disturbi di Personalità siano radicati e, pertanto, impossibili da rimuovere in modo globale.
Approdati ad una fase in cui viene riconosciuta la presenza invalidante di un problema, è il momento di decidere, di mettere mano al portafoglio. Ora, come scegliere il professionista a cui affidare la propria storia? Andare a casaccio, oppure informarsi circa i diversi approcci esistenti alla psicoterapia? E se non posso permettermi lo specialista che vorrei, come procedo? Caos. 
Nell'attimo in cui sceglie questa carriera, lo psicologo clinico sancisce le proprie sfortune. In che senso. Nel senso che è chiamato quasi all'onniscienza, a confrontarsi con un'imponente mole di disturbi che deve conoscere e saper trattare seguendo un medesimo approccio ma producendo risultati del tutto differenti. Per esempio, se il metodo x funge con il paziente y, non è detto con il paziente z (che manifesta analogie nel quadro clinico) produca miglioramenti. Ancora, se ho mal di orecchie, una ciste o una gastrite, so bene a chi rivolgermi; questo non succede quando a non funzionare è "la mente". Oltre al guazzabuglio ed all'indefinitezza della sintomatologia, un'altra sembra essere la questione da affrontare: lo scetticismo. Perché di lagne non ne faccio nel momento in cui richiedo una visita specialistica per "patologie tradizionali", non è vero? Eppure mi lamento, semino e coltivo insofferenza quando il disturbo appare di "non riconosciuta natura". Qualcosa proprio non funziona nel modo in cui veniamo addestrati al confronto con il malessere mentale; ci insegnano a rifuggire l'ignoto nella speranza questo dissolva da sé, oppure ad affidare i nostri disagi alle ipotetiche capacità di pretucoli parlanti.
Strano come ruoti il mondo all'alba del Terzo Millennio.

mercoledì 22 maggio 2013

E tu, che fobico sei?

Rileggendo, mi sono accorta di aver scritto un articolo non proprio nelle mie corde; eccessivamente glassato di miele. Nonostante questo, credo costituisca un buon punto di partenza rispetto a ciò di cui vorrei parlare oggi, anche perché non prendersi troppo sul serio è l'unico modo per evitare il rischio di rimanere senza nulla da dire.
Nel precedente articolo ho infatti affermato quanto sia essenziale strutturare dei legami duraturi lungo il cammino che conduce al quieto vivere, soffermandomi sull'importanza dell'Altro in termini sia fisici che rappresentazionali. Ma qui mi sono arenata, come se avessi voluto trasmettere al lettore l'idea di un'inequivocabile condizione tutto-o-nulla. In psicologia spesso è così, parliamo per fenomeni prototipici avendo dalla nostra i costrutti di base sui quali successivamente andranno costruite delle teorie, con la speranza queste siano generalizzabili rispetto ad un campione di riferimento. Il limite è però quello di travisare i risultati, di mescolare i soggetti e gli oggetti delle ricerche, vanificandone l'essenza primaria. L'entusiasmo nel voler spiegare un qualsivoglia fenomeno incalza l'errore a venirci a cercare ed il più delle volte questo ci trova, spiazzandoci.
Stabilire relazioni non è lineare come magari è apparso leggendo l'articolo che ho pubblicato qualche giorno addietro, anzi. Stabilire relazioni è un meccanismo complesso a cui la biologia riserva un solo piccolo aiuto, ossia la predisposizione a costruire legami di scopo che sono, per esempio, finalizzati alla riproduzione, alla cooperazione o al mantenimento di gerarchie ben precise. Ancora, "rapporti amichevoli" non significa "rapporti d'amicizia", così come "rapporti amorosi" non significa "rapporti d'amore". Il problema, se vogliamo, è che una relazione andrebbe letteralmente ingozzata di risorse sino quasi all'implosione; resa tanto pesante sarebbe poi difficoltoso sradicarla dal terreno. Eppure, è molto facile dimenticarsene e lasciare deperisca fino a spegnersi. Se mantenere rapporti è un compito così disastroso quando le persone sono in salute, si pensi alle possibili ed ancor più deficitarie declinazioni laddove le persone siano pazienti. Spesso risulta irrealizzabile un qualsiasi tentativo di costruzione di legami, ma non per volontà, bensì per oggettiva incapacità di cimentarsi nel nuovo. Per esempio, penso ad un paranoide (DSM-IV-TR, Disturbo Paranoide di Personalità, gruppo A: strano/eccentrico) che oscilla tra sospettosità ed ira funesta, oppure ad un narciso (DSM-IV-TR, Disturbo Narcisistico di Personalità, gruppo B: amplificativo/imprevedibile) che si barcamena fra la grandiosità ed uno stato di vuoto distanziante, entrambe condizioni in cui non può esserci nessuno oltre che lui. Cosa ci azzecca tutto questo con quanto lasciato intendere dal titolo? Molto ed anche molto poco. Di seguito proverò ad argomentare.
La psicologia cognitiva post-razionalista individua due tipologie di fobici o meglio, per essere più precisi, due condizioni pre-morbose che predispongono la persona allo sviluppo di una fobia. Se dal punto di vista descrittivo, ossia da DSM, le fobie appartengono alla classe dei disturbi d'ansia, dal punto di vista esplicativo, siamo invece chiamati a distinguere i disturbi d'ansia da quelli specificamente fobici. Dipendenti vs. autonomi, una terminologia che travalica il significato comunemente riservato a queste due sfaccettature di un'unica dimensione. Nutro una particolare simpatia per gli autonomi e voglio quindi provare ad isolarne l'aspetto relazionale, definendo quale ruolo rivesta l'Altro in un individuo così strutturato. Tralasciando le cause che pilotano l'organizzazione di conoscenza a volgere in questa direzione, prendete per buono che siano due le polarità principali: l'autonomo è "forte", l'autonomo è "solo". Forte nel senso che si è ben presto trovato a fronteggiare delle situazioni complesse per le quali ha dovuto maturare fermezza di carattere; cavarsela sempre e con assoluta freddezza, porsi e raggiungere obiettivi concreti senza che il dominio emotivo interferisse con il fine. Solo nel senso che ha precocemente appreso in che misura le persone possano essere inaffidabili e quanto l'averne bisogno non possa che allontanare dai risultati sperati. L'indipendenza, coltivata a partire dall'adolescenza, viene resa una compagna di viaggio fedele nella propria solitudine, mentre al contempo gli altri non fanno "né caldo né freddo" e di rado arrivano a toccare la sfera del sentimento. L'attivazione emotiva è pressoché compressa e viene inghiottita ogniqualvolta emerga in modo eccessivo (se di eccesso si può parlare). L'autonomo è schermato contro la costrizione dei legami, non resiste ai vincoli di fedeltà, blinda l'accesso all'Altro. Finché vive nella sua libera e forte solitudine è compensato, stabile, equilibrato. Ma cosa accade quando l'ambiente (interno o esterno) invalida anche una sola delle due polarità? Come reagisce il sistema quando sente minacciato, compromesso, uno dei suoi scopi più importanti? Ansia, paura; l'esordio fobico. L'individuo che ha un'immagine di sé come persona forte ed invulnerabile può cadere in scompenso laddove divenga realmente consapevole delle proprie mortalità e debolezza. E' per esempio il caso di malattie fisiche o di incidenti stradali, i quali minano in modo diretto la convinzione di essere al di sopra della comune fragilità che caratterizza l'essere umano. Ancora, a destabilizzare sono tutti quegli eventi che coinvolgono la condivisione di una vita con l'Altro, come per esempio un fidanzamento oppure l'inizio di una gravidanza. In casi come questi, il soggetto si sente colpito nell'idea che ha di sé come persona sola ed emancipata, una condizione maturata a partire dalle prime relazioni infantili, entro situazioni in cui ha appreso a contare unicamente sulle proprie capacità. Non sorprende che nella scelta dell'oggetto sessuale prediliga storie brevi e poco intense, che spesso ne mantenga in piedi più di una, che non appena si senta troppo coinvolto si dia alla fuga. Il pericolo e la minaccia sono pervasivi, generano ansia, inducono un'attivazione emozionale che l'autonomo non può gestire né rappresentarsi mentalmente; ecco perché indietreggia dandosi alla macchia, sparendo senza lasciare traccia se non il profumo del suo transitare.
Ora, signori, resta un problema. Spiegate voi alle persone che vorrebbero costruire un legame significativo con un tale individuo che questi non può perché fobico. Un fobico autonomo.

domenica 19 maggio 2013

O t'attacchi o ti stacchi.

Non puoi che ripetertelo, ogniqualvolta ti trovi nel mezzo di una relazione work-in-progress. Frasetta interessante poiché applicabile sia ad un "io" che ad un "tu", con la differenza che nel primo caso rimane pressoché inconsapevole ed auto-diretta, mentre nel secondo iperconsapevole ed etero-diretta.
Nel cammino che conduce alla costruzione di un legame significativo, l'individuo tende a ponderare la quantità e la qualità delle risorse da investire, nel tentativo che risulti possibile bilanciare i contributi provenienti da entrambe le parti. Una vana speranza; non succede quasi mai. E questo perché le motivazioni alla base del legame stesso sono impari, di rado sovrapponibili, e rispondono a alle necessità dell'individuo che le coltiva dentro di sé. Vero è che si riesce ad esser soli all'interno di una relazione, che la superficie è comune e condivisa mentre il baratro specificamente differenziato. In età adulta, ciascuno vive i legami di attaccamento* in linea con quelli strutturati nei primi anni di vita; permane infatti una certa stabilità, nonostante le esperienze influenzino il corso dello sviluppo. Nella ricerca di un Altro che ti completi (e non esclusivamente entro un legame di coppia) vengono messi in atto alcuni comportamenti di attaccamento a seconda dell'età: se da piccolo piangi e ti avvicini gattonando alla mamma, quando sei più grande chiami al telefono e spedisci fiori alla ragazza che vorresti conquistare. Dalle modalità comuni alle più bizzarre, l'idea di fondo è destare l'attenzione, rendersi uno stimolo saliente (vedi L'amore?), fare in modo che un interlocutore considerato essenziale non vanifichi gli sforzi. In questi casi, "prevedibilità" è la parola d'ordine; quanto meglio sarai in grado di anticipare il comportamento dell'altro e meno fatica farai ad abituartene. Il rifiuto genera un minor numero di problematiche se confrontato con l'ambivalenza, in quanto non riuscire ad intuire gli atteggiamenti di una persona importante destabilizza, costringendo all'insicurezza sistematica.
Non permettete che questioni irrisolte svolazzino libere nell'aria o a lungo andare vi soffocheranno nella misura in cui prima vi aiutavano a respirare. "Attaccarsi" è un'esperienza meravigliosa; dà la percezione di contatto viscerale, di comunanza ed al contempo di individualità. Sono convinta che vivere sia accumulare legami affettivi ed imparare a farli coesistere, spesso essendone alla mercé, altre volte determinandone direttamente l'espressione.
Parlare, parlare ed ancora parlare. A che scopo, mi dico, quando poi è la comunicazione trasmessa attraverso le emozioni ad ergersi a matrona dell'universo relazionale umano per tutto il corso dell'esistenza.

* Teoria dell'attaccamento di John Bowlby. Gli esseri umani manifestano una tendenza innata a cercare la vicinanza e/o il contatto di uno o più individui, "dalla culla alla tomba".

venerdì 17 maggio 2013

Non era di questo che volevo parlare.

Quest'interessante settimana è trascorsa proprio in scioltezza, da lunedì 13 a venerdì 17 senza eccessivi intoppi. Un poco ci speravo, così magari avrei dato adito alle credenze superstiziose che accompagnano giorni come questi. Invece, per mia sfortuna (!), sono obbligata a smentire tutto quanto. Sarà per la prossima. Il prossimo gatto, il prossimo sale rovesciato.
Sono in lotta perenne con la superstizione, non nel senso che mi ostacoli la vita, bensì per riuscire a debellare dal pensiero delle persone con cui interagisco alcune convinzioni tanto marcate. Spesso è una partita persa a priori, lo ammetto, mentre altre volte un qualche ragionamento più razionale si riesce a costruire, anche se guidato. Tuttavia, perché stupirsi delle piccole credenze del quotidiano, laddove succubi di una delle più invischianti superstizioni che attanagliano il genere umano, ossia sua Signora, la religione? Ho inghiottito la frase liquidatoria "questione di fede" tante di quelle volte da risultare indigesta. Ecco un'altra delle mie battaglie storiche, dal creazionismo a ciò che ne consegue. A furia d'investire tempo in guerriglie, sembra che non sia rimasta una briciola di quiete nella mia testa. Da morta avrò tutto l'agio del mondo per ripigliarmi dalle fatiche della vita vissuta.
Parentesi felice chiusa, fatemi rientrare nella tematica con cui ho aperto l'articolo: la superstizione. Lungi dal sostenere facili paragoni, mi azzardo ad inserire le credenze superstiziose all'interno del pensiero magico, bizzarra modalità di percepire ed interpretare la realtà circostante. Ne sono esempi la convinzione di essere chiaroveggenti oppure l'intestardirsi su presunte capacità telepatiche tra anime affini. Accendi la televisione e, vuoi per l'audience vuoi per altro, vieni bombardato da stimoli che sfruttano la predisposizione tutta umana a qualsiasi tipologia di credenza, purché stramba e non verificabile (o falsificabile, a seconda). Per dirne una, a me fanno morire i tizi che cianciano con i morti oppure fingono contatti extra-terreni in autoindotti stati di trance ipnotica. [Piccolo inciso, esistono tecniche di ipnoterapia finalizzate al recupero di pazienti per esempio afflitti da dolori cronici, ma qui trattasi di tutt'altra storia, converrete con me.] Così come quelli che ti vendono i numeri del lotto o ti leggono la mano; insomma, l'elenco è vario e davvero bislacco. Eppure, se non ci fosse domanda l'offerta si estinguerebbe, cosa che però non succede nel caso di tali "occupazioni". Ed il motivo che accomuna la propensione a sostenere queste convinzioni superstiziose è, se vogliamo, persino adattivo. Come t'avvinghi ad un dio perché altrimenti non sapresti come spiegare il mondo, così mantieni le tue convinzioni sul filo dell'incontrovertibilità; chi si prenderebbe la briga di sfatare verità a cui nemmeno è possibile accedere? Chi farebbe mai crollare un sistema di riferimento come la religione, bell'e che pronto, per incamminarsi sul sentiero tortuoso ed infinitamente lungo che conduce a spiegazioni alternative migliori? Forse solo colui che fa del dubbio la propria arma, lo strumento con cui al contempo difendersi ed attaccare. Lo scienziato. Intellettualmente predisposto ad accettare gli sviluppi della propria disciplina anche (e soprattutto) nel caso in cui distruggano anni di lavoro, rimesso ai fatti di una Comunità che non ha scopi, se non punti di partenza.
Per la seconda volta rientro in tema; quante divagazioni! L'obiettivo iniziale era infatti quello di contestualizzare il "pensiero magico" all'interno di un individuo che manifesta un Disturbo Schizotipico di Personalità (DSM-IV-TR, gruppo A: strano/eccentrico). Anche qui, sarà per la prossima, già mi sono dilungata.
...
Un'ultima puntualizzazione. Esiste un modo per sperimentare telepatia tra anime affini; si chiama empatia.

martedì 14 maggio 2013

Sul bordo di una linea.

Esiste Collusione, un buco di 1333 corpi che camminano localizzato ai confini di un’ipotetica città. Tra due città, per l’appunto. Ecco poi Nardo; non chiamatelo Leo perché me l’offendete. Vuole che si citi la parte del suo nome meno incline alla piacevolezza, forse convinto rifletta l’essenza stessa del suo esserci, nel mondo. Infine Collisione, una dimensione svincolata dalla realtà situata si provi ad immaginare dove? All'interno della testa di Leo; non di Nardo, fregati. Sentilo che dice: “Ho del buono e me lo tengo stretto; gli scarti ve li regalo, prego di nulla.” Del resto, non che la privazione lo tocchi, anzi. Ma tocca i milletrecentotrentadue altri, e qui sorge la rogna. Un grattacapo modaiolo, l’aggravante. Infatti, un giorno si addita Nardo d’irrequietezza estrema, il successivo d’asocialità, quello dopo ancora di lussuria e via così, come in un quizzettone a punti. Ce-l’ho-ce-l’ho-manca! Ce l’ho-manca! Fino ad accaparrarsi il set di tutte le attribuzioni possibili. E' triste lasciarsi giochicchiare da persone ordinarie, non trovate? Anche perché se Leo ne divenisse consapevole, un ribaltone trasfigurerebbe la realtà degli eventi. Ma non c’è pericolo che ciò accada; è Nardo, noncurante, ad essere in contatto diretto con un fuori che lo etichetta, ad essere in linea con l’andazzo del codazzo. Ci starebbe un’imprecazione. Nardo non ne vede l’ora e difatti manco la vedrà; Leo vive una quiete tanto rassicurante e delicata! Condivide, è stimato da chiunque lo incontri per la strada (fibrosa della mente) e pensa al sesso entro i limiti del pensarci stesso.
Qualche dettaglio sembra non tornare; c’è qualcuno che sarebbe in grado di caratterizzarmi un Leonardo nella sua interezza? Perché altrimenti proprio non ne usciamo. O meglio, Leo ne esce, sì, ma per la maggior parte delle volte lacerato. Nardo invece poi ci entra quando più gli aggrada in quel suo mondo inconsistente, renitente, indifferente, esasperante. Come lui, quanto loro.

Questo è, se penso ad un individuo Border.

O da DSM-IV-TR, Disturbo Borderline di Personalità (gruppo B: amplificativo/imprevedibile).

venerdì 10 maggio 2013

Attrazioni deviate.

Lamento spesso il fatto di non essere una grande intenditrice ed amante di cinema. Appartengo alla piccola categoria di persone che preferisce la carta stampata allo schermo, mini o maxi che sia. Nonostante ciò, devo riconoscere che ci sono alcuni film a cui mi sento particolarmente legata; "Salò" è senza dubbio uno di questi. Capolavoro controverso, lo vidi per la prima volta al secondo anno di superiori e ricordo uno shock di una settimana intera. Non riuscii proprio a metabolizzarlo. Così come non riuscii a metabolizzare il romanzo a cui Pasolini si ispirò, ossia "Le centoventi giornate di Sodoma", scritto dal libertino de Sade nel 1785. Non che fossi matura a sufficienza per letture di quel tipo, certo, ma non lo sarei tutt'ora; infatti, sono convinta non esista una maturità sana che possa permettere la "digestione" di narrazioni così particolari. E poi ci si indigna per i romanzetti erotici, pazzesco!
Comunque, cito queste due opere perché realizzano in maniera straordinariamente esplicativa una classe ben variegata di disturbi sessuali, dal DSM-IV-TR classificati come parafilie. Feticismo, feticismo di travestimento, pedofilia, voyeurismo, esibizionismo, frotteurismo, sadismo e masochismo; chi più chi meno, tutti sanno a che cosa si riferiscano. Alcuni sono meglio conosciuti di altri, sia dal punto di vista ingenuo che da quello rigoroso della ricerca empirica. Per alcuni inorridiamo mentre ad altri semplicemente reagiamo con indifferenza o magari un commento in sordina. Sembra però che si sia sempre sulla scia della colpevolizzazione, soprattutto quando messi di fronte a situazioni che non si riescono ad assimilare all'interno di schemi forse poco addestrati alla flessibilità. E questo non per un'apologia di comportamenti in ogni caso patologici, bensì in virtù del fatto sia necessario almeno un minimo grado di vicinanza e comprensione verso chi manifesta disagi così invalidanti. I pedofili non sono tutti "omosessuali repressi", i sadici non si riconoscono a colpo d'occhio camminando per la strada, i feticisti di travestimento non sono quelli che vi movimentano le serate in discoteca, e via così. Non se ne può davvero più delle solite giustificazioni, anche se trovarne di migliori è un'impresa ardua; i ricercatori non dispongono tutti i giorni di pazienti smaniosi di raccontare al vento le proprie perversioni.
Ciò che accomuna le parafilie sembrerebbe essere un forte sentimento soggettivo di compulsione a governo del comportamento, l'impulso irrefrenabile ed incontrollabile di ricevere una gratificazione sessuale mediante l'utilizzo di oggetti inusuali. Questo nulla ha a che vedere con fantasie o sperimentazioni occasionali, naturali ed auspicabili nel cammino che porta alla strutturazione di un'identità sessuale sana ed appagante.
Resta aperto il grande interrogativo sul perché la (quasi esclusiva) totalità degli individui con parafilie sia costituita da uomini.

lunedì 6 maggio 2013

Indipendentemente dipendente.


Qual'è il numero delle "cose" da cui è possibile dipendere? Potenzialmente infinito se pensiamo ai vizi che contraddistinguono l'essere umano. Dipendenza dalle sostanze, dal cibo, dal sesso, dalle arti e dai gesti; dipendenza dalle persone. La meno auspicabile, a mio avviso, perché realizza in pieno il motto del "lasciarsi vivere". Badare, non ci si lascia vivere da tutti, bensì da pochi (anzi, molto spesso da un'unica persona) a seconda della fase evolutiva in cui si è immersi e questa peculiarità rende il quadro ancora più complesso. Se in infanzia e fanciullezza è naturale, necessario, dover dipendere dalle figure di accudimento, con l'adolescenza si dovrebbe assistere al graduale allontanamento finalizzato all'emancipazione, il processo mediante cui individualizzarsi nella strutturazione di un'identità adulta integrata e stabile.
In meccanismi tanto fragili, anche un piccolo ingranaggio difettoso è sufficiente a compromettere le potenzialità dell'intero sistema. Questo, per esempio, è ciò che accade in un individuo che nel corso dello sviluppo maturerà un Disturbo Dipendente di Personalità (DSM-IV-TR, gruppo C: ansioso/timoroso), una condizione morbosa appartenente alla stessa classe di cui fa parte il Disturbo Evitante di Personalità, accennato in un articolo precedente. Come dire, l'opposta polarità di un continuum evolutivo che si è imparato a considerare dimensionale e non categoriale. Se mi ripeto è perché credo sia davvero essenziale non cadere nel tranello della facile attribuzione di etichette, riuscire nel tentativo di superare i vincoli che ci incatenano al pensar comune.
Ribadita l'idea di fondo, una domanda, ora. Sareste disposti a subordinare i vostri bisogni a quelli altrui solo perché siete convinti sia l'unico modo per non incrinare alcuni legami significativi? Forse no, ma questo è ciò che sperimenta sistematicamente un individuo con Disturbo Dipendente di Personalità, scisso, oscillante fra uno stato mentale di auto-efficacia ed uno di vuoto disorganizzato. Vive battaglie quotidiane contro l'immagine che ha di sé come persona indifesa, debole e bisognosa di protezione; esaspera i rifiuti, non è in grado di concepire l'eventuale rottura di relazioni affettive importanti ed è convinto che la sua felicità dipenda dalla vicinanza di figure forti e supportive. Per controbilanciare le ansie ed i risentimenti che potrebbero provenire da critiche e disapprovazioni, tende ad essere disponibile fino alla nausea; è remissivo, dimesso. La convinzione che gli occupa buona parte dei circuiti può essere riassunta in un abbacinante «non discutere con chi ti accudisce, sii servile e vedrai che non ti abbandonerà».
Infine, dipendere non implica una condizione d'inevitabile passività, anzi; da studi recenti emerge la peculiare capacità di saper fare tutto quanto sia necessario al fine di mantenere relazioni intime significative, un'ideazione di strategie più o meno consapevoli che richiede un livello notevole di pianificazione del proprio agire e comprensione delle dinamiche dell'altro.

mercoledì 1 maggio 2013

Il limite delle compensazioni.

È tutto il pomeriggio che mi arrovello il cervello con un giochino mentale di insana utilità: trovare un contro-esempio che smentisca il principio secondo il quale più o meno fai, più o meno faresti. Come dire, i problemi della vita! Eppure, questa potrebbe essere una delle tante incognite a cui divertirsi a violare la privacy. Io mi sono servita di tre azioni tipiche, in quanto necessità primarie dell'individuo medio: mangiare, dormire, copulare. Per ognuna si tracci una linea, al margine sinistro si scribacchi un bel meno ed al margine destro un bel più. Ora si consideri la regola secondo la quale il meno nutre il difetto ed il più l'eccesso; converrete con me che sono entrambe posizioni estreme e quindi disadattive, disfunzionali per l'individuo che ne è caratterizzato. L'ideale sarebbe agire riuscendo ad arenarsi in una dimensione intermedia ed equilibrata, che non sfoci agli estremi. Difficile! Comunque, queste sono le combinazioni del giochino:
- mangio - mangerei: condizione patologica, per esempio, l'anoressia;
+ mangio + mangerei: condizione patologica, per esempio, l'obesità;
- dormo - dormirei: condizione patologica, per esempio, i disturbi dei ritmi sonno-veglia;
+ dormo + dormirei: condizione patologica, per esempio, i disturbi dell'umore;
- copulo - copulerei: condizione patologica, per esempio, le disfunzioni sessuali;
+ copulo + copulerei: condizione patologica, per esempio, le parafilie. 
Se la vita fosse "giusta" assisteremmo ad un bilanciamento delle polarità ossia, per esempio, meno mangio e più mangerei oppure più copulo e meno copulerei. In questa ridente fattispecie non avremmo bisogno di alcun tipo di auto-monitoraggio specifico e ci sottrarremmo quasi certamente alle condizioni psicopatologiche. Perché è utile non dimenticare quanto la malattia sia potenziale in ognuna delle nostre vite, che solo se fortunati sono bilanciate ed equilibrate, protette rispetto ad alcune tipiche estremizzazioni di sorta. Nel caso di gravi scompensi, un sostegno viene fornito dalla terapia: essa infatti riscrive il tracciato di un binario ideale, facilitando il rientro in carreggiata al paziente ed aiutandolo a ridefinirsi all'interno di dimensioni stabili ed armoniose.

Ora spiegami perché sei un altruista.

Premessa: non dovrei erompere dall'ambito della psicologia clinica, eppure un tema come l'altruismo non può non essere snocciolato anche all'interno di alcune teorie che psicologiche non sono. La biologia, per esempio, ci aiuta a definire in modo chiaro il fenomeno, soprattutto indicandoci quali ne siano le principali strategie. Di queste, l'unico elemento di differenziazione sono le modalità con cui vengono messe in atto ed i fini, per così dire parziali, ma non l'obiettivo di fondo che accomuna tutte le specie animali. Il gesto altruistico comporta sempre uno sbilanciamento tra donatore e ricevente in termini di costi e benefici ed ha una maggior probabilità che si verifichi tra individui strettamente imparentati ed in popolazioni medio-piccole, queste caratterizzate da interazioni ripetute tra parti in gioco. Possiamo così riassumere quanto detto:
  • B > zero;
  • BxR > C;
formula in cui B è uguale al beneficio del ricevente, C al costo del donatore ed R al grado di parentela.
Laddove l'atto altruistico sia orientato verso individui altruistici e comporti per il ricevente un beneficio superiore al costo sostenuto dal donatore, si potrà sperare in un aumento della fitness* media degli altruisti poiché il costo del gesto verrà compensato dalla presenza del gene dell'altruismo nei beneficiari. Per esempio, i pipistrelli vampiro sacrificano le proprie risorse, cibo ed energie, al fine di favorire individui che si trovano in difficoltà". In una forma sociale di questo tipo, definita "eusocialità" è molto più semplice che si diffondano i comportamenti altruistici a cui si è accennato.
Il punto chiave è che il gesto altruistico, per essere ottimale, deve essere reciproco: tra l'altruista ed il beneficiario è necessario si costituisca uno scambio di ruoli regolare affinché questa cooperazione diventi un fattore di sviluppo. Capacità mentali quali, per esempio, distinguere i consanguinei dagli estranei, riconoscere i gradi di parentela e saper smascherare i cheaters (gli egoisti, i cosiddetti "imbroglioni") si elevano a pressione selettiva; il risultato è un insieme di abilità cognitive sofisticate che permettono un buon adattamento all'ambiente naturale e relazionale. Laddove io sia in grado di riconoscere gli individui, ricordare i favori (dati e ricevuti), mantenere una memoria a lungo termine, effettuare stime di costi e benefici e sviluppare strategie di condotta (per esempio a tutela dell'onestà reciproca), potrò sostenere di aver raggiunto una meta evolutiva importante. Ma non tutto procede lineare, altrimenti non ne parlerei in questa sede: intuitivamente, il comportamento altruista è soggetto allo sfruttamento poiché la selezione naturale favorisce gli egoisti all'interno del gruppo, facilitandone la diffusione, con conseguenze spesso emblematiche.
Ma ora accantoniamo Darwin e successori per occuparci delle possibili dinamiche che sottostanno al fenomeno per cui "dare e fare per gli altri, in modo incondizionato". Lanciamoci nel baratro specificamente umano. Prima si cancella la convinzione che l'atto altruistico sia "disinteressato" e meglio è perché semplificherà la presa di coscienza nei confronti del gesto stesso. Dovremmo infatti considerarne la reale natura, ossia immaginarlo alla stregua di una strategia di adattamento privilegiata che permette di controllare potenziali eventi di perdita, rifiuto ed abbandono. Modalità caratterizzante lo stile di personalità tendente a disturbi depressivi (un concetto simile ma che non coincide con quello di disturbo depressivo), si manifesta in quei soggetti che la psicologia cognitiva definisce "oblativi". Amare ed offrire senza la pretesa di esser contraccambiati dicono sia un'esperienza meravigliosa più per chi dà rispetto a chi riceve; l'affermazione non mi trova completamente d'accordo. Il beneficio è significativo per entrambi, solo va traslato in due dimensioni differenti. Serve al donatore per mantenere una coerenza interna, in linea con le attribuzioni di significato costruite in infanzia, fanciullezza ed adolescenza; serve al beneficiario dipendentemente dagli scopi. A mio avviso, l'altruismo si costituisce come un egoismo mascherato nella misura in cui ogni gesto assolva ad un compito particolare nel mantenimento della propria integrità. Pertanto, la persona si obbliga ad assumere un ruolo di supporto nelle relazioni considerate essenziali e le cause di eventi critici come per esempio rotture, perdite e separazioni vengono attribuite alla propria inadeguatezza. La convinzione cardine è che sia sempre in agguato la possibilità di poter deludere l'Altro significativo, un elemento a prescindere dal quale (soprav)vivere non sembra poi così indispensabile.

* Successo riproduttivo di un individuo o di uno specifico genotipo.