venerdì 6 dicembre 2013

Missione Neutralità.

Se c'è un qualcosa che amo, nel quotidiano, è sapere che chiunque possa fare affidamento su di me. Un supporto mediante vicinanza mentale, s'intende, quel tipo di empatia equamente ripartita tra la compartecipazione percepita dall'esterno ed il distacco necessario sostenuto dall'interno. Uno stile d'orientamento al mondo di non semplice gestione, a causa di una tra le più ostili variabili che possano influenzare un giudizio neutrale: il coinvolgimento emotivo, quello pervasivo e fuori controllo.
Capita spesso che mi venga fatta notare una mancanza di spensieratezza e spontaneità all'interno delle relazioni umane, quel "lasciarsi andare" tanto osannato che piace alle nuove generazioni. Consapevole del gap, non posso che proporne un'interpretazione, un'idea che possa arricchiersi di nuovi tasselli ogniqualvolta una persona mi dia modo di ragionarci, osservandola dalle più svariate prospettive.
Per formazione, sono portata a coltivare la peculiarità che governa un individuo che si appresti alla pratica della psicoterapia. I manuali, nonché la vita professionale, ti richiedono di comprendere senza mai invadere il territorio del giudicare, di essere empatico ma allo stesso tempo imparziale, immancabilmente presente ma poco esposto, aperto all'ascolto ma con un orecchio rivolto alla tua individualità. Viene chiesto, in soldoni, di sapersi dosare. O come adoro pensarla io, di ridimensionarsi in funzione dell'unicità altrui. Ed è complesso, a volte persino frustrante e sminuente, perché porta a domandarti cosa rimarrà di ciò che sei se sistematicamente ti comprimi per lasciare posto all'altro. Se ogni tuo riconfigurarti non sarà dannoso sul lungo periodo, se avrai mai il bisogno ed il coraggio di parlare di te stesso, se le molte sfaccettature della tua persona formino, in realtà, un tutto coerente ed omogeneo. L'eventualità di dissolversi, poiché smarriti entro le più diverse sembianze, obbliga a schermarsi. E quando ciò si trasforma da uno stato transitorio ad un tratto stabile del carattere, i giochi sono bell'e che conclusi. A prescindere da chi ti siede davanti e dal problema che pone alla tua attenzione, verrà poi naturale l'esserci ed il non-esserci, contemporaneamente.
Con tutte le limitazioni del paragone, è come se fossi il secchio che raccoglie il rigurgito altrui sotto forma di parole e pensieri disfunzionali. Ma quel recipiente ci sarà solo nel caso in cui venga preparato; al contrario, il tutto si disperderà in ogni angolo, diventando invalidante. In questo eterno processo di riempimento-svuotamento, un ruolo cruciale viene svolto dal cosiddetto "pelo sullo stomaco", ovvero dall'attitudine a resistere alle peggiori esperienze possibili. Ancora, è utile pensare che nella pratica psicoterapica possa intervenire un qualche fenomeno di lieve discontinuità della coscienza, questo funzionale a creare una barriera tra sé e l'esterno. "Dissociarsi" non sempre è patologizzante; talvolta, infatti, può contribuire ad una sana difesa dell'organismo pensante. Per esempio, nei casi di numbing emozionale si esperisce una sorta di ottundimento emotivo che protegge dalla stimolazione esterna, consentendo alcuni comportamenti semi-automatici, nonché provocando un'accelerazione dei processi mentali.
Può sembrare che io sia assorta e non particolarmente presente, concordo, ma non bisogna però dimenticare cosa implichi, da parte mia, il pieno affondo in una dimensione che non mi appartiene. D'altro canto, questo non avviene indistintamente bensì in misura più o meno intensa a seconda dell'interlocutore. Perché se un amico racconta di sé, per quanto ci si sforzi di schiacciare il coinvolgimento emozionale sotto le suole delle scarpe, il risultato sarà sì buono eppure mai sufficiente. Per esempio, a volte capita mi accorga di essere troppo "dentro", altre invece di non "starci" affatto. Soprattutto a posteriori, quando ripenso alle dinamiche delle conversazioni avute.
Con le persone che ami è sempre tutto più difficile, per infinite motivazioni. Per le aspettative che hanno nei tuoi confronti, per l'investimento fatto, perché più sanno e più riescono comunque a fraintendere, per la volontà di ricambiare, per il timore tu ti possa allontanare, e via così. Vivi le relazioni con la consapevolezza che la neutralità che ti riempie e sostiene potrebbe essere meravigliosa, ma che tuttavia potrebbe anche concorrere a sfasciare l'intero rapporto. Ciò nonostante, non puoi che limitarti a dire che questo sia il pedaggio per accedere alla propensione mentale che incanala a diventare un buon professionista. L'incertezza delle mie stabilità in cambio del desiderio che induce l'altra persona a rendermi partecipe della propria vita. Poi beh, la convinzione che le persone ti cerchino solo "quando ne hanno bisogno" non sempre credo sia così negativa, anzi; semplicemente, andrebbe compresa. Le persone non cercano uno psicologo nel momento del bisogno, figurarsi in quello del non-bisogno.


Desidererei chiudere con un aneddoto. Lunedì ero in caffetteria, in università. Mi si avvicina il tecnico che gestisce la manutenzione delle macchinette e, tra una parola e l'altra, mi chiede: "Greta, può una persona che ci abbandona nei momenti brutti meritare di starci vicino in quelli belli? Perché quando le situazioni diventano un po' meno magia e cose meravigliose ti lasciano da solo?" Che dire, ho percepito tanta di quella sofferenza che se avessi potuto incidere l'atmosfera con una lama questa avrebbe pianto dispiacere e sconforto a non finire.
Davvero. Non c'è un momento peggiore di quello in cui vorresti pensare a qualcosa da dire, ma realizzi di non aver tempo a disposizione per farlo.

lunedì 2 dicembre 2013

Elettra mia, bimba adorata.

[…]

La cicala sull'albero è muta,
s'è svegliata l'intera borgata,
tutti sentono la serenata
che papà sta cantando per te.
L’acqua del fiume arriva dal mare,
se la mia voce ti arriva lassù,
papà stasera ti chiede scusa
se non t'ha dato qualcosa di più.

[…]

(Musiani, E. – Lauretta mia)

Non è la prima volta che cito la mitologia greca; in questo caso, il riferimento vola ad Elettra, figlia di Agamennone e Clitennestra. Il mito racconta che Clitennestra, invaghitasi del giovane Egisto, istigò quest’ultimo a macchiarsi di omicidio, contribuendo lei stessa all’uccisione di Agamennone. Elettra, turbata e sconvolta per la morte del padre, convinse Oreste, uno dei suoi tre fratelli, a vendicare l’affronto subito, ripagando la madre con la stessa moneta. La missione venne scortata anche da Pilade, figlio di Anassibia sorella di Agamennone, il quale venne infine sposato da Elettra.
Il mito fu ripreso da Freud cosicché servisse d’analogo al più celebre mito dell’Edipo re e, da qui, il "complesso di Elettra", secondo Jung definibile come il desiderio della bambina di 3–6 anni di impossessarsi del pene di cui si sente mancante, entrando così in competizione con la madre sia per averla concepita senza pene sia perché è l'ostacolo che si interpone tra lei ed il padre, suo obiettivo sessuale principale.
Areno temporaneamente l’argomentazione e riporto qualche aneddoto di matrice autobiografica.

Non sono un maschiaccio, ma.
All’asilo ero la bulletta dei Grandi; sotto il grembiulino mai che avessi una gonnella. Possedevo un Cicciobello a cui ho fatto patire le pene dell’inferno; una Barbie sottomessa al volere di Ken, Goku, Action Man ed all’amante biondo delle Bratz. Il primo bacetto lo diedi ad un tale di nome Mattia che, badare, avevo finito d’insultare un attimo prima. Avevo per amicheseguaci due gemelline dai capelli d’oro a caschetto ed un’orda di bambini che si compiacevano di compiacermi.
Alle elementari rincorrevo maschi e femmine indistintamente; ho perso il conto degli spintoni dati e ricevuti. Amavo il Milan, collezionavo personaggi Dragon Ball, macchinine e mattoncini LEGO; giocavo a GTA, Mortal Kombat e Gran Turismo, avevo il pallone sempre appiccicato ai piedi, odiavo le femminucce che andavano a cucito all’oratorio o che galleggiavano nell’aria dopo aver saltato la cavallina. Io, l’oratorio, lo raggiungevo unicamente per i videogiochi, il campetto di calcio e lo scivolo in mezzo alla fanghiglia. Sparavo all’Ultimo con la scacciacani e mi piacevano micce, micette, razzi e razzetti. Sognavo di essere un personaggio dei cartoni animati e d’insinuarmi così nel cuore della mia maestra prediletta. Avevo molte amiche che si sbalordivano che preferissi coltivarmi degli amici. Iniziai a ricevere frasi in sospeso e corteggiamenti ancor meno che taciti; un doppio lavoro interpretativo già dal principio. Per tutti ero “La Bara” e quando “La Bara” arrivava minacciosa con lo sguardo rivolto nella tua direzione, allora sì che potevi considerarti nei pasticci. Ho sempre desiderato far controllare i livelli testosteronici del mio organismo, in realtà. Disegnavo e scrivevo senza sosta; forse, le uniche due dimensioni in cui mi ricongiungevo con la porzione più sensibile della mia personalità in costruzione.
Alle medie capii cosa si esperisce in un corpo ed una mente di adolescente femmina; questo, unitamente al fatto di aver tastato con mano quali fattori venissero implicati nella condizione di potere alla forza psicofisica che soggioga i più deboli. Dall’indifferenza nutrita per le fanciulle alla loro animosa difesa, dall’abbattimento delle barriere donnauomo al desiderio di riappropriazione della propria condizione biologica.

Ad un attento esame (e se mi limitassi alle bislacche spiegazioni psicoanalitiche) dovrei prendere atto che provassi una tale invidia del pene, da:
  • amare alla follia mio padre; oggetto sessuale non unicamente finalizzato al piacere;
  • odiare alla pazzia mia madre; colpevole di avermi creata senza pene;
  • calcolare le modalità e le tempistiche per appropriarmi del pene di mio padre al fine di copulare con mia madre (la meta principe della pulsione sessuale naturale), nonostante la detestassi poiché rivale per il possesso del pene di mio padre.
Ora, tutto ciò conduce a dire che io bambina, frustrata dalla constatazione di non possedere il pene, abbia voluto emulare la condizione maschile impossessandomi di comportamenti ed atteggiamenti tipici "della categoria". Che poi s’incunea un dubbio: se possiedo mamma con un pene che non è quello di papà, è da considerarsi adulterio? Oppure va bene uguale poiché “è l’intenzione quella che conta”? Se non fosse un ragionamento circolare, forse reggerebbe anche.
Conoscere per abbattere, dicono.

giovedì 28 novembre 2013

Rimani seduta.

In anticipo, chiedo scusa. Il contenuto di questo articolo, infatti, esula un po' dagli argomenti che mi sono ripromessa di trattare, nel blog. Eppure, non posso fare a meno di scrivere perché ho una tale inquietudine interiore che sono certa mi farà esplodere se non la rielaboro in qualche modo.

Accadde in un bel giorno di novembre, il 18, la creazione di una pagina spas-so-sis-si-ma sull'arcinoto facebook. Il titolo? "L'arte di essere cagna". Nelle informazioni, giusto per metter le mani avanti, viene riportato: "Il nome della pagina è scherzoso e non vuole offendere nessuno. Unisciti a noi per le migliori foto... Buon divertimento!"
Premessa: tutto sono fuorché la bacchettona moralista di turno. Commenti sul dubbio vestire di alcune donne dall'apparenza promiscue scappano anche a me, così come sorrisi d'intesa con le amiche alla vista di un fondoschiena femminile un po' troppo esposto. Ma qui si giace su tutt'altro piano. Il sito espone carne da macello costellata con frasi del tipo "secondo voi è cagna?" oppure "cagnona" oppure ancora "è abbastanza cagna per i vostri gusti?". Mi destabilizza maggiormente, poi, constatare come ai centocinquantamila iscritti appartengano molte, moltissime donne. Direte voi, donne che si sanno prendere sul ridere! Perché, diciamocelo, ciò di cui veniamo accusate è la mancanza di senso dell'umorismo, quella bestia rara che permette di fare due sghignazzate in compagnia, giusto? Un'ironia tinteggiata di squallore che non vogliamo tollerare, no? Poi stupida io, perché più parli in chiave negativa di una questione e più le dai risonanza; come la sessualità per i cattolici, insomma. Mi dico anche che si tratta di un'innocua moda temporanea destinata a dissolversi quanto prima, come molte delle pagine sui generis. Mai finirò di ripetere alla mia consapevolezza che l'individuo si modella a seconda delle circostanze e che un social nulla può contro la concretezza del vivere. Eppure, non sempre è così e sono molti i casi di gente che c'ha rimesso la faccia per aver concesso un'eccessiva confidenza alla rete.
...
Wow, mi aggiorno in tempo reale. Il giorno 20 di novembre è stata addirittura creata una comunità virtuale dall'omonimo titolo! Nelle informazioni, questa volta, viene svelato senza mezze misure che "Le cagne più in calore sono qui." Peccato conti solo quarantaseimila iscritti ma, non temete, è solo questione di tempo. Abbiamo anche un "La fabbrica della gnocca cagna", ottimo. Sembra che l'analogia sia molto gettonata. Evitiamo poi di sottolineare quante volte venga utilizzata come commento alle più disparate immagini si trovino nel web, perché un "bau bau" non guasta mai, soprattutto se contenuto in una nuvoletta di dialogo che esce dalla bocca di una ragazza.
Ora, a me hanno sempre insegnato come la sana ironia necessiti di circoscrizione; contrariamente, sono parole sconclusionate e di massa, reiterate senza il benché minimo barlume dei tempi e dei modi. Se cento persone sostengono l'argomentazione x, ciò non vuol dire essa sia vera. E' uno dei più antichi bias di ragionamento, suvvia, ed ha l'età dell'universo intero! Emulare l'ironia, quella effettiva e studiata ad hoc, non ti rende brillante bensì unicamente succube del conformismo più bieco possa esistere. Dopo il sorriso o la risata sguaiata che strappano alcuni commenti tutti uguali a loro stessi, cosa rimane? La certezza che appartieni ad un pensiero condiviso? Forse. La sicurezza che in giro ci siano altri che viaggiano sulla tua lunghezza d'onda? Probabile.
Ma il dubbio che tu sia uno tra i tanti, un anonimo, non ti stuzzica l'ego?

martedì 26 novembre 2013

La malattia del pensare.

«Quando non so cosa fare, rifletto.»
«Quando non so più cosa fare, rifletto.»
«Quando rifletto, non so più cosa fare.»

Tre affermazioni separate da un abisso.

Nel primo caso, il tipico esempio dell'istintivo: prima si agisce e successivamente si considerano gli antecedenti e le conseguenze. Lo spazio concesso alla componente verbale razionale è ridotto ai semplici titoli di coda perché ciò che conta sono le scene appena terminate.

Nel secondo caso, il tipico esempio del rassegnato: si provano tutte, alcune per dovizia di particolari si ritestano, ma i risultati lasciano un po' il tempo che trovano. Come ultimo appiglio, addentare un frutto, seppur acerbo, del pensiero. Legherà lievemente in bocca, ma è sempre meglio che morire per fame di risposte.

Nel terzo caso, il tipico esempio del rimuginatore: e qui la questione si complica.

Il rimuginio rappresenta una tipologia particolare del pensare caratterizzata da una sovrabbondanza di pensiero verbale con polarità negativa, evitamento cognitivo ed inibizione della processazione emotiva (Borkovec, 1998). Detto in altri termini:
  • dal punto di vista quantitativo, il tempo che dedico a congetturare l'eventualità di esperienze future negative è pervasivo: una tendenza a previsioni catastrofiche che conduce, per esempio, al considerare sistematicamente l'ipotesi peggiore contenuta in un ampio spettro di possibilità; 
  • sfrutto una modalità di conoscenza basata sull'estraniazione: interna, quando non avverto emozioni e pensieri se non sotto forma di malessere, esterna laddove escludo qualsiasi verifica rispetto alle mie convinzioni;
  • il mio disimpegno dal materiale emozionalmente carico ha una massiva influenza sulle risposte fisiologiche prodotte dalla divisione simpatica del sistema nervoso autonomo: tale gestione razionale delle emozioni sgradevoli, pertanto, mi tutela dall'ansia.
Da ciò risulta in qual misura il rimuginare possa determinare alcuni stati maladattativi in cui l'inibizione di emozioni spiacevoli è la miglior complice nel persistere delle emozioni stesse, nonché lasciapassare per viziosi processi psicopatogeni di mantenimento. 
Viene da chiedersi allora, date le inevitabili conseguenze, perché il rimuginio venga impiegato come utile strategia d'approccio al contesto interno ed esterno dell'individuo che ne fa uso. Tradizionalmente, il riferimento si distingue se vengono considerati scopi sul breve oppure sul lungo periodo. Alla prima categoria appartengono i casi di rasserenamento transitorio, nei quali il rimuginio riesce ad attutire il tanto temuto impatto distruttivo originatosi dall'attivazione neuropsichica delle emozioni negative. La convinzione è che «più ci penso e meno mi angustio». Per contro, alla seconda categoria appartengono i casi in cui ti convinci che è grazie al rimuginare se risolvi uno dei tanti problemi che ti attanagliano, un'illusoria strategia di problem solving, poiché l'elaborazione di piani d'azione efficaci viene ostacolata dalla mancanza di un anche minimo grado di concretezza nell'elaborazione mentale dell'informazione. A volte, poi, ad una soluzione ci si arriva ma sarebbe meglio se se ne diffidasse: per la maggiore, infatti, si riscontrerà essere sbagliata. Ancora, sul lungo periodo il rimuginio aiuta, se così si può dire, a distrarsi da previsioni ostili; alcuni studi, per esempio, dimostrano come uno "worrier"* abbia "una rete di associazioni di eventi previsti negativi molto più ricca dei "non-worrier" (Vasey e Borkovec, 1992). Questo implica che il pensare in chiave negativa estenda, di volta in volta, il sistema associativo che accorpa le convinzioni disadattive di cui è schiavo il rimuginatore. Un terzo scopo si riconduce, se vogliamo, ad una funzione cara all'ansia psicogena, ossia all'anticipazione. In questo caso, l'individuo non cerca soluzioni pratiche ai suoi guai bensì allestisce uno "scudo emozionale" con l'obiettivo di prepararsi al peggio. La convinzione è che «pensare non mi aiuta a risolvere i problemi ma, laddove arrivassero, farà in modo che io possa sopportarli meglio».
Rimuginare arena in una posizione di stallo e procrastinazione perenne, sostituisce le normali strategie di risoluzione delle difficoltà e blocca l'accesso ad alternative percorribili rispetto agli scopi che è intenzione dell'individuo preservare. Rende vana la propensione (funzionale) a previsioni catastrofiche poiché induce alla contemplazione del "carattere terrifico" di una data situazione, impedendo la strutturazione di scenari entro cui questa potrebbe essere elaborata, di certo, in maniera più costruttiva.

* worrier: termine inglese che traduce l'italiano "rimuginatore". Da "worry", letteralmente "preoccupazione": tiene conto di una lieve sfumatura di significato, facendo riferimento alla componente emozionale del rimuginio.

giovedì 14 novembre 2013

Sfizi psicoterapici.

Sono settimane che non scrivo sul blog e, di ciò, me ne dispiaccio. Vuoi per l'inizio della preparazione universitaria in prospettiva di sessione, vuoi per l'attanagliante vita sociale, trovo sempre meno tempo da regalare alle mie riflessioni "pompate" circa tematiche cliniche e psicologiche che tanto m'affascinano. Oltre a questo s'unisce il fatto stia convogliando parte delle mie energia mentale e fantasia nella stesura d'un progetto di più ampio respiro: il tentativo di scrivere un libro.
Devo esser sincera, il termine "libro" mi spaventa ed al contempo elettrizza; pensare anche solo di poter soffiar vita all'interno di quattro pagine stampate è un qualcosa di meraviglioso. Anche per tale motivo, mi percepisco leggermente all'asciutto, un poco a secco d'idee. Inoltre, il mero spunto non è mai sufficiente alla stesura di un articolo, per breve e striminzito che sia, bensì richiede di tenersi aggiornati e, quindi (rientrando nel punto di criticità), d'avere tempo da spendere.
Questa mattina, però, sento di poter produrre una considerazione che, per quanto poco impegnativa possa essere, fiorisce da recenti aneddoti di vita quotidiana. Perché, diciamocelo, quando succubi delle medesime esperienze, due sole spiegazioni si configurano. O sperimenti un qualche scherzuccio della memoria, non so, come per es., flashback vividi, déjà vu e ricordi ricorrenti oppure l'altro (un altro generico) ti ripete sistematicamente le stesse cose.

Quando mi chiedono di cosa mi occupi, nella vita, due sono le strade che amo percorrere. Se la persona dinnanzi a me mostra un briciolo d'interesse rispondo in maniera estesa, della serie "studio scienze cognitive, un neonato ed interdisciplinare ramo di psicologia sperimentale". Laddove, per contro, la richiesta sia meramente contestuale replico cercando d'accrescere il nullo coinvolgimento manifestatomi, sulla scia di un "studio il cervello" (piccola variante sul tema che, sincera, suscita sempre un minimo sguardo interrogativo). Di rimando, il 90% delle volte mi preparo al guizzo di genio del personaggio che transita sul mio cammino: "Sarei un caso perfetto per te."
Boom, un altro da mettere in lista.
...
Ad oggi, se dovessi conteggiare le volenterose cavie che mi si sono presentate (e se già fossi abilitata alla professione), sarei milionaria ed in carriera, senza un attimo di tempo da dedicare al bricolage. Perché se ti vengo a raccontare che mi dedico alla comprensione della mente, tu, da buon interlocutore, non puoi che reagire mettendo sul ridere la tua condizione e quindi tentando di creare una barriera che ti separi da quel misterioso personaggio che potrebbe carpirti chissà quali segreti, se solo lo desiderasse. Generalmente, infatti, circola un'idea prototipica dell'individuo che categorizza ed interpreta i disagi mentali, a prescindere dall'applicare o meno tali considerazioni in sede d'analisi oppure per mero fine di ricerca: l'idea è che lo psicologo riesca a leggere il pensiero, e ciò, rigorosamente "da dietro", ossia dando la schiena al paziente che, nel mentre, racconta mestamente di sé e del mondo che lo attornia, per nulla comprendendo la condizione che lo frustra. Il solo fatto il termine "strizzacervelli" sia incluso nei dizionari di lingua italiana, e pertanto legittimato, fa ben comprendere la misura delle ingenue concezioni che dilagano. Io poi ne faccio questione personale; non concepisco che un profano sappia distinguere per funzionalità e specializzazione un otorino da un nefrologo, ma che scivoli in modo tragico quando chiedi lui di scegliere tra uno psicoanalista ed un cognitivista. Forse, mi dico, la difficoltà risiede nel discriminare tra due figure che, tendenzialmente, trattano disturbi identici benché ne diano interpretazioni e soluzioni molto diverse tra loro. Di comune, spesso, manco la denominazione delle medesime patologie! Questo guazzabuglio complica il quadro, non c'è che dire, ma la giustificazione non copre la vastità del problema.
Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dal dentista, capiterà io possa averne necessità e sarò obbligato a curarmi. Anche se mi convinco mai avrò bisogno di andare dallo psicologo, capiterà io possa averne necessità e mi obbligherò a non curarmi.
La questione è delicata. E fastidiosa, a dirla proprio tutta. In aggiunta, non credo poi sia un problema di semplice scetticismo, bensì di convinto rifiuto; misconosco poiché temo. Una veterana, tra le strategie autodifensive. Da lato opposto, c'è chi invece considera l'andare da uno specialista alla stregua di una moda transitoria e per i pochi che se lo possono permettere. Distinguiamo. A questa categoria appartiene chi pretende "lo psicoanalista" perché si pensa l'unico in grado di svelare i più reconditi misteri dell'interiorità individuale. Che importa poi se s'instauri l'eventualità alla luce vengano portati vissuti inesistenti... Intanto, io ci vado! Di cosa sto parlando? Di sindrome da falsi ricordi, naturalmente. Non che sia prerogativa dei soli psicologi dell'inconscio, eppure è più facile sviluppi all'interno di una relazione terapeuta-paziente tanto invasiva qual è la psicoanalisi. In soldoni, avviene che pazienti particolarmente suggestionabili vengano indotti (in modo più o meno involontario) a rievocare esperienze in realtà mai sperimentate. Ciò sulla scia di una teoria parapsicologica priva di sostegno empirico alcuno. Tipico è il caso degli abusi d'infanzia.
E qui mi fermo.

venerdì 25 ottobre 2013

Che dolori, il senso comune.

Di seguito, alcuni proverbi di matrice nazional-popolare. Tema: la pazzia. Li ho suddivisi per associazione d'idee. I completamenti sono brevi considerazioni di petto, senza troppo ragionare su significati più o meno sottesi. Il risultato? Piuttosto bislacco.
1. Pazzia-saggezza.
  • A pazzo relatore, savio ascoltatore. Perché le parole sono importanti. Ancor meglio se taciute. 
  • Non è sempre savio chi non sa esser qualche volta pazzo. Dev'essere una bella storia, la flessibilità. 
  • Pazzo per natura, savio per scrittura. Quanti ne conosci che dovrebbero il loro equilibrio alla penna?
  • Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente. Azzecchiamo i momenti sbagliati per intervenire; falliamo i momenti giusti per ammutolire. 
  • Vi sono dei matti savi, e dei savi matti. E dei matti-matti ma savi-savi.
2. Paragone pazzia-fanciullezza/buffonaggine.
  • Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla. Tanti dicono anche alle donne. Immagina allora un pazzo fanciullo femmina. 
  • I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro. Ed un demone dalla nostra.
  • I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono. E' ciò che non vogliono dire quello a cui bisognerebbe prestare attenzione. 
  • Pazzi e buffoni hanno pari libertà. La non-stupidità. 
3. Definitorio.
  • Ai pazzi si dà sempre ragione. Quando non accade, tranquillo, che vengono a prendersela. 
  • Basta un matto per casa. E come ci rimane in piedi, se costituita da un unico ed incompleto mattone? Rimpiangiamo i muri di una volta. 
  • Chi nasce matto non guarisce mai. Diffidare da chi nasce, cresce e vive da guarito, poiché muore da malato. 
  • Con i matti non ci son patti. E chi te li ha chiesti!
  • Testa di pazzo non incanutisce mai. Me ne verrebbe una, ma soprassiedo.
4. Vita relazionale.
  • Alle barbe dei pazzi, il barbiere impara a radere. Per una volta, soli uomini. 
  • Loda il pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare. Loda il fallo e, se lo fai saltare, pazzo lo farai diventare.
  • Un pazzo ne fa cento. Li cerco all'infuori oppure sono tutti rannicchiati nella sua mente?
5. Evitamento.
  • Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata. Un matto ti fugge per migliorarsi il quotidiano. 
  • Chi non crede di esser matto, è matto davvero. Adesso, tutti pensano di avere qualcosa fuori posto perché va di moda. 
  • Non mettere il rasoio in mano a un pazzo. Non se chirurgo di professione, almeno.
6. Generico.
  • I pazzi crescono senza annaffiarli. Da soli, senza sole. 
  • La roba dei pazzi è la prima ad andarsene. Avevo un prezioso tanto carino, una volta. 
  • Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo. Non che i ritardatari siano meglio. Sballati sono i ritmi circadiani. 
  • Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia. In questo caso vi fa comodo, eh?
  • Non tutti i pazzi stanno al manicomio. Non tutti i sani ne stanno al di fuori. 
  • Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe stridere. Se posi l'orecchio, sentirai che sono le urla ad ottundere lo stridio. 
  • Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo. Le foglie come le devo considerare? Pensieri che cambiano colore e posizione a seconda delle stagioni?
7. Agire.
  • Non tutti i matti rompono i piatti. Certo che no; personalmente preferisco i bicchieri. 
  • Ogni matto fa il suo atto. A dispetto dei sani, però, privo di trucco o mascheramento. 
  • Ogni pazzo vuol dar consiglio. Contrariamente, non saremmo in coda per diventare psicoterapeuti. 
  • Pazzo è colui che bada ai fatti altrui. Da buon voyeur, poiché guardarsi non è tanto appagante. 

giovedì 17 ottobre 2013

Circuìti dalla soggezione.

Martedì 15 sono stata la cavia di un esperimento di psicofisica al CIMeC (Centro Interdipartimentale Mente/Cervello) di Rovereto. Questa non era di certo la mia prima volta, poiché sono ormai tre anni che cerco di partecipare attivamente alla ricerca scientifica, quando me ne viene data la possibilità. Non è nemmeno la prima volta che vengo sottoposta ad un esperimento che, in un modo o nell'altro, collega i colori con un qualche aspetto della realtà (per esempio, il ruolo del contrasto nella percezione di una profondità). La partecipazione odierna ha stimolato in me una riflessione che dal titolo si direbbe nulla possa centrare con il contenuto effettivo dell'esperimento. Questo è vero ed infatti non mi soffermerò di certo sugli aspetti metodologici né di contenuto di questo, bensì sul ruolo giocato dalla somministratrice nel contesto.
La maggior parte delle volte, lo sperimentatore non è l'ideatore delle ipotesi di ricerca e degli stratagemmi mediante cui testarle, bensì un tirocinante prossimo alla laurea oppure un dottorando. E' capitato raramente che mi venisse sottoposto un esperimento dal suo diretto inventore il quale, in molti casi, svolge un ruolo di supervisione sull'operato dei propri studenti). Così oggi: somminstratrice, una ragazza che avrà avuto su per giù 25 anni, probabilmente alle prese con la stesura della tesi. Accanto a lei, in laboratorio, quella che doveva essere la docente, nonché ideatrice dell'esperimento a cui dovevo partecipare. Sono stata fatta accomodare davanti al monitor ed ho firmato le scartoffie di routine per il trattamento dati e consenso informato; al che, tutto era pronto e si poteva cominciare. L'esperimento era suddiviso in 5 blocchi, ognuno dei quali prevedeva una breve introduzione (quale spiegazione al compito da svolgere) affidata alla tirocinante. Da subito, ho percepito un'aura di subordinazione che avrei potuto toccare da quanto spessa, un gap incolmabile tra studentessa e docente. Lo sguardo basso, un lieve fremito nella voce, i discorsi frastagliati, le ripetizioni e, nonostante tutto, un'impeccabile (ed autodifensiva) modalità brusca d'approccio al partecipante. Giunte al terzo blocco, la conferma. Terminati i commenti d'incipit al compito, un'occhiata che se avesse parlato avrebbe suonato: "Fa' che non abbia sparato un mucchio di insulsaggini, ti prego!". Poi la luce s'è spenta (trial somministrati al buio perché la luminosità non interferisse con lo svolgimento) e l'esperimento è stato condotto a conclusione.
Il potere psicologico della soggezione è enorme, condizione in cui ti senti avvolto da un senso opprimente di timore alla vista di una particolare persona oppure di fronte ad una situazione che t'ispira manchevolezza individuale. Percepirsi intimiditi e considerarsi non all'altezza di uno standard ritenuto non eguagliabile sono entrambi fattori che esercitano pressione sul delicato meccanismo dell'auto-efficacia.

L'associazione d'idee più scontata che mi sovviene è la modalità d'attribuzione di significato per mezzo della quale un individuo con organizzazione depressiva dà struttura (ed interpretazione) al proprio bagaglio d'esperienza. Spaccature di rapporti importanti, l'attenzione selettiva per sfaccettature negative, la tendenza a colpevolizzare se stessi oppure gli altri circa le proprie mancanze oscillando fra inadeguatezza personale ed ostilità altrui, sono tutti fattori che concorrono all'assoggettamento al reale.

mercoledì 9 ottobre 2013

La sindrome della "persona giusta".

Una pillola scontata ma piuttosto interessante: se non trovi la persona ideale è perché tutte, potenzialmente, possono andare bene. Dal momento che, oggigiorno, si abusa di ogni termine (soprattutto se di matrice psicologica), ne approfitto pure io: una sorta di relativismo amoroso?
Mi stringo all'idea di Feyerabend secondo la quale è impossibile definire cosa, nel mondo, possa essere degno di rivestire una posizione privilegiata, lungo la via che conduce alla conoscenza. Come assimilo la scienza al mito, la religione alla magia, così non ho alcun potere di decidere quale sia lo strumento per mezzo del quale trovare risposte soddisfacenti ad ogni interrogativo che costella il quotidiano. Perché, se vogliamo, anche individuare una persona che ci rimanga accanto per un particolare periodo di tempo è una delle risposte auspicabili ai propri desideri. Laddove considerassimo ogni uomo (ogni donna) alla stregua di soluzioni diverse di un medesimo rompicapo, come fare per scegliere "quello giusto" se immersi in opzioni tutte di egual valore?
Concorderete con me nell'affermare che una tra le più abusate giustificazioni al proprio ed altrui agire sia: «Sono fatto così e non posso farci nulla». Quel "così" che racchiude un mondo tanto misterioso quanto irraggiungibile, per colui che osserva dal di fuori. Verrebbe sempre da chiedere: «Così come?». Ma dal momento che sono pochi quelli che si prendono la briga di riempire il "così" di informazioni per cui valga davvero la pena compromettersi con un'affermazione in tal misura priva di una sostanza effettiva, sembrerebbe che piaccia permanere nell'indefinitezza delle proprie posizioni. Capisco che a volte lo si faccia per risparmiare tempo, altre per liquidare un discorso ostico, altre ancora perché le frasi fatte esercitano sempre un non so che d'effetto, ma... siate sinceri con voi stessi. Credete di semplificare lo sforzo interpretativo di colui che vi tende un orecchio nell'obiettivo di ascoltare le vostre considerazioni? Non metto in dubbio, anche se vorrei, che siate grandi intenditori di voi stessi e che ciò vi valga la medaglia d'oro in self-consciousness, però sembra d'obbligo pensare anche a chi vi siede davanti.
Un esempio.
Se mi sento ripetere da dieci uomini diversi: «Tu puoi capire. Sono fatto così, ho pochi pregi ma molti difetti, come tutti», cosa pensate potrei trarne? Forse solo che ad ogni ripetizione aumenta la mia avversione per i luoghi comuni. Comodo pensare che sia io a dovermi sporcare le mani per dare un nome al pregio x ed al difetto y, quando invece dovrebbe essere intrinseca all'altro la voglia di manomettere una costruzione di pensiero tanto mancante quanto fastidiosa. Questo è come sostenere di non poter cambiare, una convinzione che rende l'individuo schiavo dei propri schemi, rigido, e per niente disponibile a stringere mano alla flessibilità. Che poi, cosa c'è di meglio del riuscire ad adattare la propria persona alla mutevolezza degli eventi? Laddove si rimanga uguali mentre tutt'intorno evolve, non è possibile di certo essere considerati dei buoni viaggiatori.
Una parola tanto cara alla biologia (ed anche a me) racchiude il senso di ogni questione: "adattamento". Quando realizzi che nulla di esterno combacia con i tuoi confini, non puoi che rimodellarne la superficie; è semplice. Quale sia il modo è peculiarità di ognuno, strategie che sono il frutto di pratica, prove ed errori. Forse, il piccolo nucleo che non cambia è l'unica certezza che un qualcosa di stabile ci sia; una nicchia isolata ma non per questo non influenzabile. Ogni fattore è una fonte di discussione, nonché una sorgente di dubbio.
Perché arrovellarsi nella ricerca dell'ideale quando invece potremmo godere dei benefici dell'accettazione del più adatto, a seconda del momento e della fase del nostro avanzamento cognitivo-affettivo? I matrimoni non si sfasciano a causa di facebook, così come le coppie non esplodono per meri capricci: muta l'ambiente e la persona intelligente (in senso psicologico rigoroso) si riconfigura. Ora, le caratteristiche dell'Altro che meglio collimavano con i miei confini non riescono più ad incastrarsi, come in precedenza, bensì creano dei gap d'incomprensione destinati solo ad espandersi. Un vuoto che si allarga è la cruda immagine della lontananza.
Ecco perché ad ogni periodo sembra corrispondere una specifica gamma di uomini o donne con cui si costruiscono relazioni; sempre considerando affidabili le categorizzazioni prodotte, s'intende. Lascio chiudere ad un'amica che di frequente mi ripete:
«Tutti io li trovo. La fase di quelli-delle-ex, poi gli storditi, i depressi, e adesso il periodo Dj! In comune hanno che tutti che non ci arrivano».

giovedì 19 settembre 2013

Finirà.

Sono ormai giorni che trascorro a riflettere sul ruolo giocato dai legami, nella mia vita fino ad oggi; giorni in cui non ho potuto che interpretare i nuovi alla luce degli storici, spiegare determinate esperienze grazie a scontati riferimenti a vicissitudini pregresse. Immaginabile, sono giunta ad un punto di così tale sovraffollamento di pensieri, da sentire viscerale il bisogno di buttare giù qualche riga, onde evitare l'implosione. Devo, infatti, il mio equilibrio mentale alla propensione che nutro spontanea per la scrittura, meraviglioso strumento d'accomodamento al caos.
A prescindere dai rapporti familiari, più o meno stabili a seconda del periodo, due sole sono le persone che hanno snocciolato la loro presenza lungo l'intero arco della mia giovinezza; se non fisicamente, di certo a livello d'ininterrotto appiglio alle loro immagini. Un uomo e una donna, gli unici davvero significativi, che hanno impreziosito gli anni consapevoli del mio cammino verso l'età adulta. Seppur con modalità differenti, agendo taciti o palesi, sono riusciti a rendersi presenze irremovibili, cui manco l'allontanamento avrebbe tolto loro il ruolo. A posteriori, è proprio ciò che non mi hanno saputo dare il fattore che m'imbriglia nel ricordo, tutte quelle mancanze che mi costringono ancorata al passato e che ostacolano il mio completo ingresso nella vita relazionale adulta. L'eterna insoddisfazione verso gli uomini, l'assiduo tentativo di costruire legami irrealizzabili, la voglia di scoprire carte e cartine con persone che nemmeno osano prendere parte alla partita. Perché esporsi è pericoloso, ed il rifiuto un cappio attorno al collo dell'intraprendenza. All'alba dei 22, mi conosco; familiare è quest'anelito alla complessità, perennemente a caccia di situazioni capziose, barocche oserei dire. Spesso, mi sembra d'essere un polo d'attrazione, magnete per gli inibiti. Del resto, che gli opposti s'attraggano è vero solo in parte e, specialmente, nella patologia. Per es., un dipendente è quasi sempre sulle tracce di un (tendenzialmente) autonomo, così come un masochista coltiva amore smisurato per il (tendenzialmente) sadico della porta affianco. Ma tra individui "sani", per cui difficili sono classificazioni ed etichettature, il processo s'inacidisce; il diverso veicola ribrezzo, nonostante la biologia tenda a premiare gli individui che più si discostano l'un l'altro, tenendo fede alla di entrambi costituzione genetica.
La verità è che i rapporti importanti lasciati imputridire nell'indifferenza mai s'esauriscono, come le carni, cullati dal tempo che ondeggia tiranno. Bensì, succubi d'un eterno miasma, s'alimentano delle esperienze che ivi sacrifichi per loro, nella morsa d'un potere che stordisce. Come già detto, è preferibile l'assenza all'ambivalenza, poiché prevedibile. E lo sostiene una persona che ha sempre galleggiato nella doppiezza del comportamento altrui, nel non-definito, in quel lasciato intendere di continuo dato per scontato.
Enigmaticità che, di certo, rende chi la manifesta più "misterioso" ed "intrigante", ma al contempo, miete vittime ad ogni incursione nel mondo reale.

martedì 3 settembre 2013

Tutte femministe con l'uomo delle altre.

<<Le molte infedeltà di Minosse irritarono Pasifae a tal punto che essa si vendicò con un'opera di magia: ogni qual volta Minosse si giaceva con un'altra donna, spandeva in lei non il seme, ma uno sciame di scorpioni, millepiedi e serpenti che facevano scempio del ventre della donna.>>
Graves, R., 1963. I Miti Greci. Longanesi, Milano.
Sembra avere origini lontane la tendenza delle donne a non colpevolizzare il proprio compagno, quando viene alla luce un'eventuale tresca extra-coppia. Molto più semplice è ritorcersi contro alle cosiddette "amanti", donne la maggior parte delle volte ignare della doppia, tripla o quadrupla vita dell'uomo in questione. Scimmiotto il detto (più o meno infelice lo si consideri) "tutti gay con il c**o degli altri" e lo traspongo perché, a mio avviso, calza a pennello con la situazione prototipica che vado delineando.
Fateci caso, sono davvero poche le donne che all'interrogativo "come ti comporteresti se scoprissi che il tuo compagno ti tradisce con un'altra?" rispondono formulando frasi sulla scia di un "deve solo augurarsi io non sia mestruata quando accadrà". Anzi, a riproporsi, è sempre la medesima argomentazione, che subisce lievi variazioni a seconda del grado di auto-controllo della donna: la colpa è di entrambi ma "gli uomini delle altre si devono lasciar stare". Ottimo; e quindi? Risolvi qualche cosa con tale considerazione una volta che, contrariamente al precetto, il tuo uomo sia stato toccato? Sei di nuovo punto ed a capo; se non, ora, con il viso sporco di lacrime per lui e la rabbiosa vendetta che nutri per lei. Perché è meno lacerante per l'Io riconoscere che un'altra donna possa avere qualità migliori delle mie rispetto al comprendere di aver scelto la persona sbagliata, dopo l'averci pure investito risorse di tempo, denaro ed emozioni. Per l'individuo, in questo caso la donna, votarsi alla vita relazionale è uno tra i compromessi più impegnativi a cui sottostare, nel corso della vita. Il crollo di un legame disintegra in modo inevitabile lo sforzo compiuto con se stessi per l'altro, nella costruzione del "noi", mandando a catafascio i progetti della coppia, ma soprattutto, evidenziando le rinunce del singolo. Ancora, "la tradita" sarebbe poco saggia ad incolpare il proprio compagno poiché ciò implicherebbe l'incolparsi di scelte precipitose e privazioni patite. Ecco allora il rifiuto della propria frustrazione e lo scriteriato assalto alla terza della situazione, la talvolta vittima e talaltra complice, nell'increscioso inganno del tradimento subito. Che importa poi se sono stata soppiantata per caratteristiche che non possedevo, per capriccio oppure per una cascata imprevista di situazioni concatenate, quando quasi posso uscirne vittoriosa. Preservo il "noi" abbattendo la lei di turno, la accuso di aver osato troppo, di aver strutturato un compromesso fasullo con l'uomo sbagliato; di essere scivolata nell'errore che non posso aver compiuto io.
Costruire sui resti è sempre più semplice che non daccapo.





Tutte le donne sono femministe; se non di convinzione ed ideale, lo sono perché la biologia regala loro un organismo tale per cui esperire la condizione donna, in maniera diretta e viscerale. Eppure, quando chiamata in causa, è la dimensione che più si tende a zittire, calpestata dall'identità della coppia uomo-donna, che di sesso, non ne ha.







sabato 17 agosto 2013

Tre sono le frasi che mi sento ripetere spesso.

1. "Tu non giudichi mai."
Io non giudico mai; è fondamentalmente vero. Una buona tendenza, non lo nego, eppure scomoda, difficile da inquadrare. La realtà è che proprio fatico ad esprimere un giudizio sull'altro, anche (e soprattutto) quando mi viene richiesto dal diretto interessato. Infatti, una delle domande che più mi imbarazza risulta essere: "Cosa ne pensi di me?". Sono sempre restia a rispondere poiché una volta fuori dalla bocca quanto detto non è più recuperabile. Anche il saper dosare le parole non sempre è sufficiente a sviare l'attenzione, ad incanalarla là dove vuoi che arrivi. Mi spiazza il dover sintetizzare considerazioni relative alla persona che ho di fronte, così come il lasciarsi andare a commenti che se strappati dal loro contesto perderebbero tutto il loro valore. Ogni persona che entra in relazione con me deve percepire di possedere un posto riservato nella mia testa, un luogo in cui è ben certa di poter trovare tutto ciò che penso di lei, senza però potervi accedere. Questo è il sacrificio richiesto, in cambio del noleggio dello spiazzo. Va da sé che io difficilmente mi sbilanci; non è un non volersi esporre per timore delle reazioni bensì un volersi cullare nelle braccia dei pensieri che cambiano, integrandosi o demolendosi. Capisco la curiosità di voler accedere in modo diretto a ciò che pensa l'altro di noi, ma ciò ostacola l'espressione indiretta dei medesimi contenuti. Non chiedetemi quindi niente di globale; concedo solo frammenti, sempre che siano aggrappati a situazioni mirate e mai svincolati da esse.
Senza sfondo, anche il protagonista smarrirebbe il proprio ruolo.
2. "Riesci a vedere il lato positivo in ogni persona."
Riesco a vedere il lato positivo in ogni persona; è parzialmente vero. Ciò che arrivo ad intravedere, se vogliamo, è la giustificazione intrinseca ad ogni evento che la vita mi propina. Questa non è buona tendenza, per ovvie ragioni. Studiare psicologia è la formula perfetta, il codice che permette l'ingresso in quella magnifica stanza che è la comprensione. Il problema qui è riuscire a distinguere cosa sia più scusabile e cosa meno; contrariamente si tende a costruire una motivazione accettabile per ogni situazione e dinamica dell'altro. Il "lato positivo" che risiede in ognuno di noi è lì in bella mostra e non richiede sforzo di alcun tipo se non l'accostarsi predisposto alla comunanza.
3. "Ascolti ed osservi tantissimo."
Ascolto ed osservo tantissimo; è totalmente vero. Forse due delle attitudini che più mi caratterizzano, da un tempo indefinito. Parto dalla convinzione che tutto il trasmissibile transiti attraverso il canale comunicativo del linguaggio verbale, di natura a braccetto con il non-verbale. L'uno satura le lacune dell'altro, in un continuum che copre l'arco dell'esperienza relazionale. Spesso realizzo di stare esponendomi troppo, con gli sguardi, perché percepisco la nebulosa della soggezione. È necessario essere avvezzi al contatto non dissimulato con l'altro se l'obiettivo è quello di sostenere due occhi che sembrano scrutare nei ghetti interiori. Così come il calibrare le parole, molte volte considerato come mancanza di cose-da-dire. Niente di più sbagliato, poiché ci vuole estrema cura ed attenzione nel saperne dosare la giusta quantità. L'effetto è stimolare interesse nonché il desiderio di aprirsi sempre di più, a piccoli passi, felici di essere stati presi per mano. Il fine (perché un fine c'è) è condurre l'altro in luoghi che da solo faticherebbe a raggiungere o che, se raggiunti, troverebbe complessi da esplorare.
Il fatto è che io mi ciberei dei meccanismi che soggiaciono all'instabile equilibrio dell'individuo.

martedì 6 agosto 2013

Nei pressi della morte.

Se vi contraddistingue la tendenza (anche lieve) alla superstizione, almeno una volta nella vita vi sarà capitato di augurare le peggio cose a persone che, per un motivo o per l'altro, vi hanno arrecato un qualche danno. Nel più estremo dei casi, potreste aver bypassato la stazione comune di "Quel Paese" ed aver spedito le vostre vittime dirette in bocca alla morte.
Quasi nessuno s'è fatto originale, augurando all'altro un attacco di panico.
...

Succede che quando desideri ardentemente qualcosa, lo strazio derivante dal mero sfiorare sembra amplificare il bisogno del voler possedere. Così accade che l'assaggio della morte magnifichi la consapevolezza insita in ognuno di noi d'esser presenza di passaggio, sulla faccia della Terra. Non esiste nulla di peggio dello sperimentare la possibilità della morte ed ogni volta uscirne sì illesi fisicamente, ma disintegrati mentalmente. Cos'è quindi un attacco di panico se non un fugace accesso alla scomoda verità di essere mortali?
Non sorprende che i disturbi d'ansia siano una tra le diagnosi più comuni nella psicopatologia e che comportino (per esempio, negli Stati Uniti d'America) costi molto elevati, in termini economici per la società e di sofferenza per le persone che li manifestano. Dal punto di vista descrittivo, si caratterizzano per livelli d'ansia e di paura (dipendentemente dalle specificità di ogni disturbo) sopra la norma. In quanto frutto di attivazione psicofisiologica differente, è utile distinguere l'ansia dalla paura; nel primo caso, l'arousal è infatti moderato e induce irrequietezza oppure tensione, mentre nel secondo elevato con sintomi quali sudore profuso e difficoltà respiratorie. Entrambe le reazioni possiedono un importante valore adattivo garantito dall'azione del sistema nervoso autonomo per mezzo della divisione simpatica; se la paura ci avvisa di un pericolo imminente a cui opporsi con la lotta o, al contrario, dal quale fuggire, l'ansia ci permette di prevedere, individuare future minacce, consentendoci di affrontare oppure di evitare situazioni potenzialmente pericolose. In modo intuitivo si capisce come il non riconoscimento di attivazioni di questo genere possa condurre al mantenimento di circoli patologici che traggono alimento da convinzioni, stati mentali, che non rispecchiano la realtà. Se, per esempio, non sono in grado di riconoscere la risposta fisiologica d'ansia successiva ad una determinata situazione, tenderò ad interpretare le reazioni del mio organismo in modo distorto, compiendo un errore metacognitivo d'attribuzione del significato. Ciò non fa che aumentare la percezione del pericolo, dell'imminenza del potersi trovare nella situazione x tanto temuta che si è cercata di allontanare con ogni mezzo disponibile. Alla basa, perciò, vi è la mancanza di una viscerale alfabetizzazione emotiva al riconoscimento dei propri stati interni.

Il fobico, da intendersi quale strutturazione di personalità, o Organizzazione di Significato Personale in chiave costruttivista, si impegna in una serie di strategie che permettono lui di salvaguardarsi da uno o più eventi considerati distruttivi a prescindere dalla loro concreta essenza. L'illusione di poter controllare ogni situazione spiacevole fa perno su di un'esagerata considerazione di sé in termini di auto-efficacia: se, per esempio, sono convinta di riuscire ad evitare l'evento x, pur ingovernabile, nulla servirà a rendermi consapevole dell'inefficacia del mio agire su di esso. Così facendo, il fallimento non potrò che attribuirlo alla mia incapacità personale, al "non avere fatto tutto il possibile". Questo fa da incipit ad un logorio mentale senza tregua, rimuginio il cui risultato aggrava la già precaria condizione dell'individuo che ne sfrutta le potenzialità. Da qui diparte poi la tendenza a visualizzare unicamente il lato negativo dell'esperienza, con previsioni catastrofiche circa le proprie incolumità e sopravvivenza.
La crisi di panico è, pertanto, un miscuglio di travisamenti concatenati che conducono alla percezione di stare-per-morire, ivi sorretta dalle sensazioni di un corpo che si attiva esageratamente per far fronte ad una fonte di stress alla cui costruzione partecipa anche (e soprattutto) l'individuo.
Sembrerebbe proprio il caso in cui "chi è causa del suo mal pianga se stesso".

giovedì 11 luglio 2013

Che depre.

L'unica cosa da fare quando non si ha voglia di scrivere è, per l'appunto, iniziare a scrivere. O almeno, provare a vedere cosa potrà uscirne.
Oggi è uno di quei giorni in cui pensi ad accumulare pensieri senza avere la capacità di dare loro un flusso coerente. Un giorno che accartocceresti e butteresti nella spazzatura, insomma. Perché.
Innanzitutto, mi sono svegliata con il piede sbagliato, pur non essendo proprio convinta che l'altro sarebbe stato quello giusto. Alzarmi con la terza gamba, forse, avrebbe fatto al caso mio. Fare colazione con le gocciole, poi, non mi ha aiutata; sono stata costretta a ripensare al fatto che mi piacerebbe vivere in una casa sull'albero in mezzo alla giungla, con una suocera rompicoglioni tra i piedi. Ho aspettato che arrivasse mezzogiorno trastullando il Mac, nella speranza mi leggesse un software di quelli antichi come il mondo marcio; invano. Se però gli chiedi di farti un caffè, quello sì, te lo concede. Arriva papà a pranzo, ma ti ricordi che sul biglietto mattutino della mamma ti era stata lasciata una scelta criptica: fare la pasta oppure le salamine. Sul fornello, ancora, né la pentola dell'acqua né la griglia riscaldata. Tutto sommato, la performance culinaria è andata a buon fine; in dieci minuti sono riuscita con una mano a comporre un'insalata veloce e con l'altra a cuocere le salamelle. Anche qui, un terzo braccio non mi sarebbe dispiaciuto. Sparecchia il tavolo ed apparecchia lo studio, come se la consapevolezza di avere qualche giorno di relax troneggiasse in una mente che non è la mia. Sveglia da quattro ore e già con le palle piene; a volte capita che non sopporti le giornate da 24 ore. Nel frattempo, il telefono squilla; però ti confondi e non rispondi a lui ma ai tuoi pensieri. Forse, non è stato un errore tanto grossolano, a pensarci bene. Abbaiano i cani dei vicini e per una strana associazione realizzi che non hai dato da mangiare alla tua tartaruga. Ho appena guardato fuori dalla finestra ma non lo vedo; Robertino odia il sole, ma non esce con la pioggia. Vai a capire quale sia il suo clima ideale. E mentre fai, fa qualcosa anche la mente; s'intasa. Si riempie di volti a cui non vorresti pensare e di parole che dovresti comporre in frasi del tipo "l'unico modo per farti perdonare è sparire" oppure "schiavizzati dai legami" o anche "mai fare progetti con chi non è in grado di dare una direzione alla propria esistenza". Con la positività che m'imbriglia, penso al cucciolo d'uomo che disturba i miei pomeriggi "solitudinari" (ossia di solitudine abitudinaria) ed ai suoi genitori che subiscono, passivi. Ogni tanto, lancia un urlo. Ogni tanto, beve un sorso d'acqua della piscina. Ogni tanto, anzi sempre, urta la mia (in)sensibilità. Oggi è proprio uno di quei giorni da trascorrere nella penombra luminosa della tua cucina, un giorno in cui non vorresti altro che ammirare il lato B della tua vicina, da qui visibile ad occhio nudo. Le mutande sono blu.
E' più bizzarro l'osservato oppure l'occhio dell'osservatore?
...

Fare baruffa con la propria soggettività è fastidioso e dissacrante. Imparare a domarla, prendendosene gioco, è una delle migliori strategie verso la comprensione di sé. L'elaborazione dei propri contenuti, dei propri vuoti, è il primo ed indispensabile passo in direzione della soggettività altrui.

venerdì 28 giugno 2013

Bsex, o l'amore per l'Altro.

Navigando per l'oceano virtuale, ho incontrato diverse denominazioni (anche poco note e non universalmente accettate) del concetto di "bisessualità". Queste sembrano avere l'obiettivo di evidenziare, differenziandole, alcune manifestazioni tipiche di una categoria, non riscontrabili oppure lievemente sovrapponibili a quelle di un'altra. Come spesso accade, però, la smania di organizzare il conoscibile mediante etichettature di sorta induce a perdere ogni contatto con la dimensione globale della questione su cui viene posta l'attenzione. Ed è un problema, specialmente nel caso in cui si smarrisca la strada, unica via che ricondurrebbe alla totalità delle cose. Sezionare un fenomeno, la maggior parte delle volte, è un buon approccio se l'obiettivo è una sottile comprensione dell'oggetto di discussione; tuttavia, richiede una doppia abilità nel sapersi divincolare tra i mille frammenti, nel tentativo di riassemblare evitando di distorcere l'intero da cui si è partiti. Per questo motivo, termini come "ambisessuale", "bicurioso" e "bipermissivo" mi hanno lasciata un po' perplessa. Scelta mia quella di arenarmi al più comune "bisessuale, termine mutuato dalla biologia in quanto venne attribuito per la prima volta nella descrizione di piante provviste di organi maschili e femminili (da non confondere con l'ermafroditismo).
Volendo andare ancora oltre, mi sono sbilanciata a favore di un titolo forse esplicativo del mio attuale orizzonte di pensiero; bisessualità intesa come propensione, tendenza all'Altro. Maiuscolo poiché dimensione propria, unica ed esclusiva; non un sostantivo comune ed indistinto con attribuzione casuale, insomma. Può sembrare che io parli come se concepissi l'interazione con gli altri un'attitudine, un moto interiore che spinge verso un'attività piuttosto che l'altra. Effettivamente è così; quante sono le persone a cui senti dire che sono "portate" per lo sport? Il passo è molto breve.
Con l'avanzare dell'età, o meglio, con l'accumularsi delle esperienze, si comincia ad abitare in idee troppo strette, che comprimono tra le loro mura. Arriva il momento in cui il bisogno di smantellare è tanto assordante da non concederti unatregua, in cui confondi la fuga con il cambiamento. E sono i traguardi più importanti a non venire considerati per la loro reale valenza, bensì unicamente per i risvolti a cui traghettano, sul breve periodo.
Lo ripeto spesso, studiare psicologia è una rovina ed insieme una fortuna. Non c'è l'uomo, non c'è la donna; c'è la persona in sé, da comprendere nella sua pienezza ed interezza. E' solo quando hai dimestichezza con la rotondità ideale che riesci poi a smussare gli angoli dell'individualità, ora sì declinata nel maschile o nel femminile. Alla luce del raziocinio decadono le differenziazioni, nonostante non possa esistere una persona ascrivibile ad un'altra, un cervello ascrivibile ad un altro. Appare così poco sensato precludersi l'approccio completo all'Altro, solo perché motivati dal fatto io sia un uomo, una donna, oppure entrambi. E non si tratta del mero atto sessuale, banalizzato nella concezione di chi "bisessuale perché se manca uno c'è sempre l'altra". No! Orientarsi all'Altro implica abbracciare una storia, chiedere il permesso di poterne scrivere un tassello insieme; valicare i confini dell'apparenza per sondare cosa sia quel tumulto che muove ad agire verso qualcosa o qualcuno. In questa prospettiva, comprendi che il genere influenza sì la biografia, ma che non dovrebbe impedirti di costruire legami di vicinanza, mentali, affettivi oppure erotici con chi di volta in volta si trova ad attraversare il tuo cammino.
Considerazioni queste che trascendono l'occasionale contatto con il primo, o prima, che transita e poi sparisce. Sono percorsi di maturazione personale ed interpersonale che pur non avendo una risoluzione, nel loro strutturarsi rendono chi li sperimenta più aperto alla condivisione, oltre i limiti imposti dalle preferenze di genere o di qualsiasi altro tipo. E' forse anche per questo che non mi piace parlare in termini di bisessualità, una concezione che rimanda a semplicistiche attribuzioni di inclinazioni che andrebbero definite in maniera più sottile, anzi, che non andrebbero definite affatto.
Qualunque sia la scelta d'amore definitiva poi, non importa; è la predisposizione a scivolare in una vita a fare da discriminante. Affinità intellettive, emotive, di azione e perché no?! Anche di genere.

martedì 25 giugno 2013

Apologia del figlio unico.

Leggendo uno degli svariati libri che devo preparare per un esame venturo, m'imbatto in una breve descrizione, estratto che riporto:
<<In primo luogo la mancanza di fratelli e cugini crea un vuoto sociale nella vita del bambino. [...] La loro assenza si fa risentire nello sviluppo del bambino. Questa è una cosa molto nota agli insegnanti che si accorgono subito se un bambino è figlio unico oppure ha altri fratelli.>>
Venuti, P., 2007. Percorsi evolutivi. Forme tipiche e atipiche. Carocci editore S.p.A., Roma
L'autrice sostiene che lo sviluppo equilibrato ed armonico delle competenze (tra cui cognitive e visive, pratiche ed adattive) sarebbe il risultato necessario dell'interazione precoce del bambino con bambini di età simile, all'interno del contesto familiare. Pertanto, il figlio unico si troverebbe a sperimentare la mancanza di scambi sociali importanti e questo influirebbe sul normale sviluppo delle funzioni mentali che permetteranno lui un confronto adattivo con il mondo. Una delle motivazioni fornite è che il bambino, non avendo spazi adeguati e partner di gioco con cui condividere le tappe progressivamente raggiunte, propenderebbe verso attività cognitivo-visive a scapito di attività fisico-motorie. Dal momento che l'utilizzo di una funzione conduce a migliorarne le strategie di messa in atto, capiamo che il risultato è di necessità un bambino "maturo" dal punto di vista delle competenze astratte, ma ancora "scarso" dal punto di vista di quelle concrete. Potremmo quindi trovarci ad interagire con bambini che gestiscono in maniera ottimale il ritmo della conversazione con un adulto da un lato, ma che dall'altro "sono incapaci di allacciarsi una scarpa o saltare una corda".
Da figlia unica, inizialmente, mi sono rivista nella descrizione; ho sempre preferito la televisione, il computer ed un buon libro allo scazzottare con gli amici. Da scienziato, però, devo fare un passo indietro.
Attribuire il divario tra assimilazioni cognitive e pratiche all'esposizione o meno a stimoli contestuali tra pari (ossia il bisogno che ha il bambino di confronti precoci con i pari) mi sembra un poco azzardato. Specialmente in virtù del fatto che un minimo di sviluppo asimmetrico permane anche laddove il contesto interpersonale rispetti le caratteristiche ideali sopra delineate. E' normale, anzi auspicabile, che ognuno sviluppi modalità preferenziali d'approccio alla realtà; ciò che va salvaguardato, se vogliamo, è che vi sia una buona integrazione tra cognitività, affettività ed azione sul circostante. Sbilanciamenti eccessivi sono sì problematici, con effetti di ipertrofia rispetto a determinati stati mentali, ma appare riduttivo soffermarsi ai primi contatti tra pari instaurati dal bambino nel proprio ambiente. Enfatizzo il "tra pari" perché è ovvia l'importanza rivestita nel periodo di infanzia e fanciullezza dall'interazione tra persona in via di sviluppo e caregiver, ma un po' meno vagliata l'ipotesi che tanto sia essenziale la presenza di fratelli oppure cugini per una crescita cognitivo-affettiva e prassica. L'idea è comunque che la vita sociale tra simili cominci molto presto, a partire dai 3 anni con l'ingresso in scuola dell'infanzia, ed in casi sempre maggiori ancor prima. Giusto per attutire il contraccolpo della solitudine da figlio unico, no?!
Io credo siano altre le questioni che interessano in modo più diretto la condizione del figlio unico, una tra queste il carico di aspettative con cui si trova a combattere tutta la vita. Fare molto e molto bene, dove ciò che conta è la performance, pratica o cognitiva che sia, dimensione spesso derubata della componente emozionale.
Titolo di coda. Non ho mai imparato a saltare la corda.

mercoledì 19 giugno 2013

Da grande? Il neuroscienziato.

Un leggero passo avanti. Anche il cuore, come il cervello, viene ritratto con fattezze organiche e non astratte alla mo' di emoticon. Nonostante questo, la partita rimane pur sempre impari; favorevolmente direzionata verso l'azzurro.
Di certo, a nessuno è nuova la dicotomia cuore-cervello, intesa come sensorialità e sentimento da un lato, razionalità e ragionamento dall'altro. Una delle tante assurdità che ci portiamo appresso dall'alba dei tempi. Non posiamo farcene una colpa, se vogliamo, ma sguazzare nell'imbroglio è sconveniente, soprattutto alla luce dei nuovi sviluppi della ricerca neuroscientifica.
Mi si abbozza un sorriso; nel 2013, una delle tracce di italiano per l'esame di maturità verteva proprio su questo argomento. Una scelta azzardata, forse, dal momento che la maggior parte delle scuole secondarie di secondo grado non ne affronta lo studio, nemmeno di striscio. Comprensibile ed in parte giustificato poiché spesso il silenzio è preferibile al mero accenno diluito. D'altro canto, però, è un piacere notare che qualcosa si stia muovendo; anche il Ministero ora è consapevole dell'importanza delle neuroscienze? Wow, almeno ho una speranza di trovare lavoro.
A prescindere dal valutare se fosse o meno fattibile, la traccia apre uno squarcio sull'indefinito e misterioso mondo degli studi sul cervello, "il pezzo di materia più complesso dell'universo". Trovo esaltante la possibilità di capire i meccanismi che ti permettono di capire ciò che stai capendo. Studiare la memoria grazie alla memoria, la percezione grazie alla percezione, il linguaggio grazie al linguaggio; insomma, studiare il cervello grazie al cervello. E questo limitandosi alle funzioni superiori, ma non si dimentichi che è il sistema nervoso nel suo complesso, centrale e periferico, a giostrare le peculiarità dell'organismo nella sua interezza. Cento miliardi di cellule nervose, ognuna delle quali diecimila volte connessa per costituire una rete d'inestricabile efficienza. Equilibri dinamici perfetti, compensazioni, plasticità; come rendere possibile l'impossibile. Quindi, non sorprende la volontà di investire in un ambito di questo tipo, di accrescere i contributi forniti alle spiegazioni del perché ci si ritrovi ad essere in un modo oppure nell'altro, del perché alcuni impercettibili mutamenti possano compromettere la nostra funzionalità. Non bisogna meravigliarsi dell'errore, che ci preclude o patologizza in una qualche misura, bensì del fatto che ogni componente dell'organismo riesca magistralmente ad incastrarsi.
E tutto questo sotto al naso di chi sostiene che "si sente con il cuore".

martedì 11 giugno 2013

If u c, find differences.

L'esordio. L'orologio segna il Mezzogiorno. 

E' una nuova mattina, il principio di un cambiamento importante.


" Ehi! Ho iniziato la dieta, finalmente."


"Ehi! Ho iniziato la mia storia con Tizio, finalmente."


I primi momenti assieme. L'orologio segna il Primo Quarto.


Tutto appare meraviglioso, l'entusiasmo è incontenibile, la voglia di fare/disfare/ricostruire raggiunge apici notevoli.


"Non ti dico, spaccherei l'universo intero. Sono motivata a stare meglio con me stessa; non sarei andata avanti ancora molto se non avessi preso in mano la mia quotidianità."


"Non ti dico, insieme spaccheremo l'universo intero. Alla faccia di chi non ha creduto in noi; l'unione-fa-la-forza."


I secondi momenti assieme. L'orologio segna la Mezza.


Tutto appare ridimensionato, più nitido e reale. La meraviglia lascia spazio a ponderati fini comuni, obiettivi concreti, visioni condivise. La meta invoglia all'arrivo che, iniquo, ti saluta beffardo da laggiù.


"Il cammino è meno semplice di quanto credessi. Forse sto sacrificandomi troppo; ok per dolci e carboidrati da ridurre, vada anche per gli ipocalorici spuntini, ma... Lasciatemi qualche giorno di tregua!"


"Il cammino è meno semplice di quanto credessimo. Forse abbiamo accelerato un poco i tempi; ok per il vedersi spesso, vada anche per la riduzione delle ore dedicate agli amici, ma... Concediamoci qualche giorno di lontananza!"


L'impasse. L'orologio segna il Secondo Quarto.


L'impegno costante inizia a vacillare ed affiorano i primi sintomi di stanchezza. La routine attanaglia, impedendo la comprensione del perché ci si sia posti obiettivi tanto profondi.


"Sono sfiancata. Non ho più perso un decimo di chilo, nonostante io abbia drasticamente ridotto l'impossibile. La dieta costruita su misura per me non ha funzionato come avrebbe dovuto ed ora sono solo domande irrisolte."


"Siamo sfiancati. Di tutti i progetti, forse qualcuno ci ha visto protagonisti, nonostante gli sforzi. Ci siamo costruiti una storia, nostra perché su misura per noi, eppure non ha funzionato come avrebbe dovuto. Scambiamoci le domande irrisolte."


L'epilogo. L'orologio segna la Mezzanotte.


E' una nuova mattina. Il principio di un cambiamento importante.


"Ho avuto modo di riflettere, in questo periodo. Allontanarmi dalle restrizioni m'ha fornito nuova energia per cercare metodi alternativi al bisogno che ho di stare bene con me stessa. Forse, ho preso in mano la mia quotidianità dalla parte sbagliata ma, dopo tutto, è bagaglio."


"Abbiamo avuto modo di riflettere, in questo periodo. Allontanarci dalle pressioni reciproche ha fornito nuovi ossigeno e lucidità per capire che le unioni imperfette non costruiscono forze, bensì debolezze. Ci lasciamo risolti, è stato bello."

Il cerchio tende a chiudersi, ogni volta. Nel caso restasse aperto, consiglio di contattare la ditta di fabbricazione.

giovedì 6 giugno 2013

Maturare nel trauma.

Uno dei core concept della psicologia clinica, ma non solo, è il concetto di "trauma". Se ne possono dare di diverse definizioni anche se l'impostazione janetiana è forse quella che va per la maggiore. Il trauma psicologico sarebbe quell'evento che, date le sue caratteristiche di pervasività e carica emozionale negativa, non riesce a venire integrato nell'esperienza mentale pregressa dell'individuo il quale, nel peggiore dei casi, rimane separato, "dissociato". Costituisce pertanto una minaccia, nei termini di un fattore che può intaccare in modo diretto la compiutezza del sistema psichico, di per sé coeso e stabile. Parlare in modo oggettivo nel tentativo di descrivere quali possano essere i significa e le sfaccettature del trauma non è semplice; specialmente in virtù del fatto che ogni persona è i propri traumi.
Di esempi ne è piena la letteratura; chiunque s'interessi di psicologia deve sbatterci il naso, prima o poi. Le interpretazioni si accavallano, a volte completandosi, altre demolendosi. Per esempio, sappiamo cosa fare ma non come procedere: "Il trauma va rielaborato". Sì, ma come? Parlandone fra me e me? Condividendolo con un estraneo? Vomitandolo in bocca al mio amico più caro? Sperando che transiti nel dimenticatoio, sospinto dal tempo? Ancora, sappiamo cosa non fare ma sembra che si padroneggino tutte le strategie che lì riescano a condurre: "Non ricercare l'esperienza soggettiva che conferisce significato al trauma nell'evento in sé." Eppure, eccoci subito pronti ad additare gli antecedenti, le persone che ne crediamo gli artefici, il dio che non ci ha protetti, noi stessi poiché inetti, immeritevoli di tranquillità, non autentici.
Tuttavia, non è così caotico l'orizzonte. Per esempio, esiste un ampio consenso rispetto all'affermazione secondo cui "la mancata condivisione, sia reale che soltanto evocata, probabilmente non consente all'individuo di costruire un insieme di significati inseriti in un continuum narrativo [...] favorendo costrutti <<instabili>> o <<rigidi>> (Intreccialagli, 2005). Nessun riferimento concreto, anzi. A mio avviso, però, l'autore ci dona un dettaglio preziosissimo perché consiglia una condivisione che non sia necessariamente in termini di realtà. Integrare l'evento traumatico all'interno del racconto autobiografico permette la progressione della storia stessa e, di conseguenza, la maturazione del protagonista.
Nel costruire un edificio, può capitare di essere provvisti sia di mattoncini buoni che di mattoncini meno buoni. Per questo, è possibile colpevolizzarsi solo per la scelta del fornitore, non di certo per il materiale ricevuto. Le persone, in quanto costruttori attivi, hanno il pieno potere decisionale e possono scegliere di utilizzare o meno i mattoncini di materiale più scadente. Sono inoltre consapevoli di quanto sarà difficile riuscire ad integrare in un tutto armonico gli elementi discordanti, ma ciò non è detto che porti a desistere. Perché le persone desiderano solo che le proprie opere abbiano un significato particolare, indipendentemente dalla mole di risorse investiteci.
I traumi non rendono più vulnerabili; se metabolizzati, infatti, possono contare sul sostegno dei punti di forza (i "mattoncini buoni"), della nostra personalità.

martedì 4 giugno 2013

Sulle tracce di Piedino Nero.

Chi è PN. PN è un maialino con una macchietta nera sulla zampa sinistra. L'ambito, ovviamente, non è campagnolo, bensì testistico: capita spesso, in fase di valutazione psicologica, che lo specialista utilizzi alcuni test con l'obiettivo di sondare in maniera più completa ed esaustiva la personalità, nonché il quadro sintomatologico dell'individuo che gli siede dinanzi. Ve ne sono di diverse tipologie, da quelli d'intelligenza a quelli di sviluppo; nel caso di Piedino Nero ci immergiamo nello sfumato panorama dei test proiettivi. Sfumato perché per interpretare le risposte ricevute a poco servono i criteri di standardizzazione, mere cornici entro cui strutturare gli elementi iniziali dell'assessment. Nel proiettivo, le caratteristiche psicometriche si colorano di fragilità e lo psicologo non può contare su manuali che definiscano in dettaglio i criteri esplicativi che possano applicarsi senza distinzioni. In mani poco esperte, è molto facile incorrere nel rischio di "proiettare tanto quanto i nostri pazienti", con il risultato di inficiare i già sensibili dati raccolti. Tuttavia, per chi è figlio di un approccio alla terapia psicodinamicamente orientato, sembra imprescindibile l'utilizzo di tecniche come queste poiché consentirebbero di portare alla luce i contenuti di matrice freudiana tanto esasperati, ovvero le istanze psichiche, le fasi di sviluppo psicosessuale i conflitti e le angosce. Eppure, riesce difficile il potersi fidare di questi test, specialmente nella misura in cui "gli stimoli da essi proposti sono costituiti proprio per cercare di evidenziare questi elementi" (Lis, 1993).
E' come dire: immaginiamo di trovarci in una stanza con al centro un frigorifero vuoto, un fornello e poche stoviglie. Abbiamo una gran fame e ci è consentito di andare a far compere un'unica volta. Prima di uscire, quindi, è necessario decidere cosa cucinare, pianificando la lista degli ingredienti. Nel caso optassi per una pasta al pesto, compererei una bottiglia d'acqua, del sale grosso, un pacco di pasta ed un vasetto di pesto. Così accessoriata, non posso che preparare ciò che ho deciso a priori.
Cosa significa, a mio parere? Significa che se mi pongo un obiettivo (evidenziare un particolare costrutto psicologico o preparare uno specifico piatto) mi devo attrezzare per ottenere quel risultato e nessun altro (rilevare un tratto di nevroticismo o addentare una pennetta con il pesto). Da ciò consegue che caricherò il processo di costruzione (la strutturazione del test o la preparazione degli ingredienti) di aspettative e lì farò convergere tutti i miei sforzi, facendo in modo che i miei prodotti (il test completo o il piatto finito) soddisfino in pieno i punti da cui sono partito.
La proiezione è un'arma pericolosa, non c'è che dire.
Ho scelto Piedino Nero, un test proiettivo tematico per bambini dai 4 ai 12 anni, non tanto per definirne i dettagli formali, bensì perché è uno dei test che mi ha lasciato con più interrogativi aperti. Ad ognuna delle diciassette tavole viene attribuito un nome ed associato un tema specifico che, a seconda della personalità del bambino, può essere o meno accettato. La richiesta è quella di scegliere le tavole che più interessano e di costruirne una storia, le avventure di PN e della sua famiglia. Ad una prima analisi, le tavole selezionate esprimerebbero i contenuti "sinceri", ossia quelli che non sono oggetto di censura, mentre quelle scartate esprimerebbero i contenuti "mascherati", ossia le tendenze represse ed assoggettate alla censura. Attraverso un gioco di sintesi, preferenze, identificazioni ed un'inchiesta finale, tutte le istanze della personalità verrebbero invogliate a reagire alla situazione target, in modo tale vengano alla luce i contenuti relativi per esempio alla colpa, alla rivalità fraterna, alla dipendenza dalle figure di riferimento, all'aggressività.
Non voglio rinnegare il mio passato; ho subìto per molto tempo il fascino dell'impalcatura psicoanalitica ortodossa. Tuttavia, non sento più di appartenere a quest'universo, difeso anche a costo di sacrificare ogni barlume di criticismo e senso della realtà.
Soffro di un male raro, che spaventa; sono malata di flessibilità e ciò mi costringe ad accettare l'eventualità di ponderati cambiamenti di fronte.

martedì 28 maggio 2013

Help yourself.

"Non ce la faccio più, devo chiedere aiuto."
Può capitare, in un qualche momento della vita, di trovarsi in una situazione tale per cui risulta impossibile farcela da soli, laddove consapevoli di un disagio che logora dall'interno. E' l'attimo in cui le già fragili difese crollano, in cui la luce in fondo al tunnel altro non è che un bilico in fase d'avanzamento. Per la prima volta realizzi di aver sempre negato, di esserti rifiutato di inquadrare i tuoi malesseri in un qualcosa che fosse più strutturato del classico "sono fatto così, poi passa". Immagino tu abbia perso il conto delle volte in cui una frase di questo tipo, ribellandosi, sia fuoriuscita dalle tue labbra. La prima volta l'hai ignorata, la seconda zittita, la terza ricacciata in un angolo remoto della mente, la quarta vomitata rabbioso, la quinta finalmente hai provato a contrastarla ma ti sei accorto di quanto fosse distruttivo il suo passaggio. Cosa fare, soccombere? Dipende da ognuno ed elemento centrale è la motivazione; con ciò s'intende che prescindere da questa sbarra la strada a qualsiasi intenzione all'azione, sino dalla più tenera età. Non a caso, i Sistemi Motivazionali Interpersonali giostrano per intero la complessità del comportamento umano. Ne sono stati individuati cinque: agonistico, dell'attaccamento, della cooperazione, dell'accudimento e della sessualità. Nella pratica clinica non si è mai trovato un paziente che non manifestasse malfunzionamenti in uno od anche più di questi sistemi, a riprova di quanto siano significativi nell'espressione di un percorso evolutivo sano oppure patologico.
Esternare una richiesta d'aiuto non è cosa facile e la difficoltà cresce (o diminuisce) a seconda del disturbo, poiché differente è l'approccio stesso alle proprie individualità e presenza nel mondo relazionale. Evitando di cadere nello specifico, è sufficiente la distinzione tra disturbi egodistonici ed egosintonici a chiarire il perché di tale diversità. L'esempio calza meglio con i secondi; sono in sintonia con l'ego i Disturbi di Personalità ed il Ritardo Mentale. Ciò significa che in entrambi i casi, l'individuo non si rappresenta come "disturbato" poiché, vuoi per condizioni psicologiche vuoi per condizione biologiche, ha manifestato patologie di tratto (permanenti, pervasive) e non di stato (temporanee, sporadiche). Per esempio, se sono un istrionico (DSM-IV-TR, Disturbo Istrionico di Personalità, gruppo B: amplificativo/imprevedibile) lo sono a 360° per 365 giorni all'anno; non sono quindi in grado di considerare invalidanti tutti i miei comportamenti perché questo vorrebbe dire azzerarmi, cancellare il fatto ed il restante da fare. Non per nulla, si sostiene che i Disturbi di Personalità siano radicati e, pertanto, impossibili da rimuovere in modo globale.
Approdati ad una fase in cui viene riconosciuta la presenza invalidante di un problema, è il momento di decidere, di mettere mano al portafoglio. Ora, come scegliere il professionista a cui affidare la propria storia? Andare a casaccio, oppure informarsi circa i diversi approcci esistenti alla psicoterapia? E se non posso permettermi lo specialista che vorrei, come procedo? Caos. 
Nell'attimo in cui sceglie questa carriera, lo psicologo clinico sancisce le proprie sfortune. In che senso. Nel senso che è chiamato quasi all'onniscienza, a confrontarsi con un'imponente mole di disturbi che deve conoscere e saper trattare seguendo un medesimo approccio ma producendo risultati del tutto differenti. Per esempio, se il metodo x funge con il paziente y, non è detto con il paziente z (che manifesta analogie nel quadro clinico) produca miglioramenti. Ancora, se ho mal di orecchie, una ciste o una gastrite, so bene a chi rivolgermi; questo non succede quando a non funzionare è "la mente". Oltre al guazzabuglio ed all'indefinitezza della sintomatologia, un'altra sembra essere la questione da affrontare: lo scetticismo. Perché di lagne non ne faccio nel momento in cui richiedo una visita specialistica per "patologie tradizionali", non è vero? Eppure mi lamento, semino e coltivo insofferenza quando il disturbo appare di "non riconosciuta natura". Qualcosa proprio non funziona nel modo in cui veniamo addestrati al confronto con il malessere mentale; ci insegnano a rifuggire l'ignoto nella speranza questo dissolva da sé, oppure ad affidare i nostri disagi alle ipotetiche capacità di pretucoli parlanti.
Strano come ruoti il mondo all'alba del Terzo Millennio.

mercoledì 22 maggio 2013

E tu, che fobico sei?

Rileggendo, mi sono accorta di aver scritto un articolo non proprio nelle mie corde; eccessivamente glassato di miele. Nonostante questo, credo costituisca un buon punto di partenza rispetto a ciò di cui vorrei parlare oggi, anche perché non prendersi troppo sul serio è l'unico modo per evitare il rischio di rimanere senza nulla da dire.
Nel precedente articolo ho infatti affermato quanto sia essenziale strutturare dei legami duraturi lungo il cammino che conduce al quieto vivere, soffermandomi sull'importanza dell'Altro in termini sia fisici che rappresentazionali. Ma qui mi sono arenata, come se avessi voluto trasmettere al lettore l'idea di un'inequivocabile condizione tutto-o-nulla. In psicologia spesso è così, parliamo per fenomeni prototipici avendo dalla nostra i costrutti di base sui quali successivamente andranno costruite delle teorie, con la speranza queste siano generalizzabili rispetto ad un campione di riferimento. Il limite è però quello di travisare i risultati, di mescolare i soggetti e gli oggetti delle ricerche, vanificandone l'essenza primaria. L'entusiasmo nel voler spiegare un qualsivoglia fenomeno incalza l'errore a venirci a cercare ed il più delle volte questo ci trova, spiazzandoci.
Stabilire relazioni non è lineare come magari è apparso leggendo l'articolo che ho pubblicato qualche giorno addietro, anzi. Stabilire relazioni è un meccanismo complesso a cui la biologia riserva un solo piccolo aiuto, ossia la predisposizione a costruire legami di scopo che sono, per esempio, finalizzati alla riproduzione, alla cooperazione o al mantenimento di gerarchie ben precise. Ancora, "rapporti amichevoli" non significa "rapporti d'amicizia", così come "rapporti amorosi" non significa "rapporti d'amore". Il problema, se vogliamo, è che una relazione andrebbe letteralmente ingozzata di risorse sino quasi all'implosione; resa tanto pesante sarebbe poi difficoltoso sradicarla dal terreno. Eppure, è molto facile dimenticarsene e lasciare deperisca fino a spegnersi. Se mantenere rapporti è un compito così disastroso quando le persone sono in salute, si pensi alle possibili ed ancor più deficitarie declinazioni laddove le persone siano pazienti. Spesso risulta irrealizzabile un qualsiasi tentativo di costruzione di legami, ma non per volontà, bensì per oggettiva incapacità di cimentarsi nel nuovo. Per esempio, penso ad un paranoide (DSM-IV-TR, Disturbo Paranoide di Personalità, gruppo A: strano/eccentrico) che oscilla tra sospettosità ed ira funesta, oppure ad un narciso (DSM-IV-TR, Disturbo Narcisistico di Personalità, gruppo B: amplificativo/imprevedibile) che si barcamena fra la grandiosità ed uno stato di vuoto distanziante, entrambe condizioni in cui non può esserci nessuno oltre che lui. Cosa ci azzecca tutto questo con quanto lasciato intendere dal titolo? Molto ed anche molto poco. Di seguito proverò ad argomentare.
La psicologia cognitiva post-razionalista individua due tipologie di fobici o meglio, per essere più precisi, due condizioni pre-morbose che predispongono la persona allo sviluppo di una fobia. Se dal punto di vista descrittivo, ossia da DSM, le fobie appartengono alla classe dei disturbi d'ansia, dal punto di vista esplicativo, siamo invece chiamati a distinguere i disturbi d'ansia da quelli specificamente fobici. Dipendenti vs. autonomi, una terminologia che travalica il significato comunemente riservato a queste due sfaccettature di un'unica dimensione. Nutro una particolare simpatia per gli autonomi e voglio quindi provare ad isolarne l'aspetto relazionale, definendo quale ruolo rivesta l'Altro in un individuo così strutturato. Tralasciando le cause che pilotano l'organizzazione di conoscenza a volgere in questa direzione, prendete per buono che siano due le polarità principali: l'autonomo è "forte", l'autonomo è "solo". Forte nel senso che si è ben presto trovato a fronteggiare delle situazioni complesse per le quali ha dovuto maturare fermezza di carattere; cavarsela sempre e con assoluta freddezza, porsi e raggiungere obiettivi concreti senza che il dominio emotivo interferisse con il fine. Solo nel senso che ha precocemente appreso in che misura le persone possano essere inaffidabili e quanto l'averne bisogno non possa che allontanare dai risultati sperati. L'indipendenza, coltivata a partire dall'adolescenza, viene resa una compagna di viaggio fedele nella propria solitudine, mentre al contempo gli altri non fanno "né caldo né freddo" e di rado arrivano a toccare la sfera del sentimento. L'attivazione emotiva è pressoché compressa e viene inghiottita ogniqualvolta emerga in modo eccessivo (se di eccesso si può parlare). L'autonomo è schermato contro la costrizione dei legami, non resiste ai vincoli di fedeltà, blinda l'accesso all'Altro. Finché vive nella sua libera e forte solitudine è compensato, stabile, equilibrato. Ma cosa accade quando l'ambiente (interno o esterno) invalida anche una sola delle due polarità? Come reagisce il sistema quando sente minacciato, compromesso, uno dei suoi scopi più importanti? Ansia, paura; l'esordio fobico. L'individuo che ha un'immagine di sé come persona forte ed invulnerabile può cadere in scompenso laddove divenga realmente consapevole delle proprie mortalità e debolezza. E' per esempio il caso di malattie fisiche o di incidenti stradali, i quali minano in modo diretto la convinzione di essere al di sopra della comune fragilità che caratterizza l'essere umano. Ancora, a destabilizzare sono tutti quegli eventi che coinvolgono la condivisione di una vita con l'Altro, come per esempio un fidanzamento oppure l'inizio di una gravidanza. In casi come questi, il soggetto si sente colpito nell'idea che ha di sé come persona sola ed emancipata, una condizione maturata a partire dalle prime relazioni infantili, entro situazioni in cui ha appreso a contare unicamente sulle proprie capacità. Non sorprende che nella scelta dell'oggetto sessuale prediliga storie brevi e poco intense, che spesso ne mantenga in piedi più di una, che non appena si senta troppo coinvolto si dia alla fuga. Il pericolo e la minaccia sono pervasivi, generano ansia, inducono un'attivazione emozionale che l'autonomo non può gestire né rappresentarsi mentalmente; ecco perché indietreggia dandosi alla macchia, sparendo senza lasciare traccia se non il profumo del suo transitare.
Ora, signori, resta un problema. Spiegate voi alle persone che vorrebbero costruire un legame significativo con un tale individuo che questi non può perché fobico. Un fobico autonomo.